Recensione: Reverse Reflection
Un lungo trip sonoro esteso su ben sedici tracce per gli Upanishad, gruppo tricolore originario dell’area fiorentina che con “Reverse Reflection” arriva al secondo album in carriera.
Psichedelia, pattern ipnotici, tracce stoner, crossover mescolato a progressive, roba acida, un po’ di funky e ska. Qualcosa di dark.
Un calderone ribollente di creatività che non riesce a restare ingabbiato e indirizzato verso un’unica direzione stilistica. Narrazione nervosa e frammentata, in cui tutto è coperto da una spessa coltre caliginosa e malinconica, tra lampi di follia e sprazzi aggressivi.
Un disco decisamente non facile, per lunghezza e vera e propria difficoltà d’assimilazione. Come se i System of a Down si fossero fusi con le avanguardie prog più ermetiche, miscelando sprazzi di follia a momenti di lucida e persino liberatoria atarassia.
Un disco tormentato, rischioso, per nulla aperto ad un ascolto di massa e disimpegnato. Quasi disturbante in alcuni risvolti appuntiti.
Eppure fascinoso, mesmerizzante in alcuni passaggi sulfurei e melmosi, amplificati dalla voce straniante del vocalist Vanni Raul Bagaladi. Melodie che si appiccicano alla pelle ed inducono inspiegabilmente ad essere riascoltate, approfondite più volte pur nella loro conformazione spigolosa, bizzarra, discontinua ed astratta.
Al termine di una serie di passaggi ripetuti, la conclusione porta verso un assunto inevitabile.
La musica degli Upanishad o si ama, o si odia.
Personalmente ho da sempre apprezzato le proposte completamente fuori dagli schemi, un po’ ardite e ricche di personalità. Tratti distintivi cui il terzetto fiorentino risponde appieno, mostrando una assoluta mancanza di luoghi comuni a vantaggio di uno stile in cui si respira l’esigenza di essere prima di tutto se stessi. Un’entità a se stante per cui le classificazioni non valgono più di tanto, al punto da rendere persino complicata la vita al recensore di turno (il sottoscritto), in severa difficoltà nell’attribuire un qualche tipo di genere a quanto inciso.
Va bene così, in effetti. Un brano assurdamente ritmico, in cui si assommano battute ossessive, suoni dark ed il sottofondo di un cane che abbaia (il pezzo è, non per nulla, intitolato “Bad Name for a Dog“) riassume al meglio quanto descritto sin qui.
Mr. Bungle, Primus, System of A Down, primi Faith no More, Kyuss, Mustasch, The Mission, i riferimenti (forse) più consoni per dare un’idea sommaria di quello che suonano gli Upanishad.
Un’offerta la loro, che prima d’essere definita in qualche modo andrebbe anzitutto ascoltata.