Recensione: (r)Evolution
Dopo uno iato triennale, gli HammerFall, band di duri e puri, amati dalla nazionale svedese di curling, e da sempre inclini alla più indefettibile coerenza metallica, ritornano con il loro nono studio album, che riprende lo storico trittico composto da Glory To The Brave (1997), Legacy Of Kings (1998) e Renegade (2000), con esplicito riferimento a quest’ultimo platter, di cui sono rimasti i tre quinti della line-up storica.
Né evoluzione, né rivoluzione sonora, dunque (a meno d’intendere il termine in ambito astronomico, come ritorno ciclico del medesimo), ma solo un ripiegamento verso l’origine, dopo il modesto tentativo di ammodernamento con il precedente Infected.
(r)Evolution, album prodotto dall’immancabile Fredrik Nordström e che esce per Nuclear Blast (label con cui gli scandinavi hanno stretto un sodalizio che pare eterno), vuole essere la continuazione dell’epos templare, raison d’être della chiara riconoscibilità tematica e sonora degli HammerFall, inaugurata dalla canzone-manifesto “Steel Meets Steel” di diciassette anni fa, nel grande disco di debutto.
Biglietto da visita un ottimo artwork a cura di Andreas Marschall (già autore delle copertine dei dischi del ’97 e del 2000), con un’improbabile “gargolla” che si anima in una notte brumosa.
Produzione, sound e cover come a inizio del nuovo millennio, aspettiamoci, quindi, un album manierato, ma diretto, che unisce heavy e power metal al tipico falsetto di Cans.
I primi secondi sono in pianissimo come per l’ultimo full-length dei Gamma Ray, poi “Hector’s Hymn” attacca prepotente con strofe dalle ritmiche taglienti e quadrate, un break corale e successivo refrain facile facile da ricordare. Il tempo sembra essere tornato indietro di quindici anni, per spirito ribelle (Lorenzo Lamas docet)! All’inizio del quinto minuto sorgono cori templari, che dialogano con un unisono di chitarre godurioso, all’insegna di un inno all’eroe Ettore. Gli svedesi cantano di «legacy reborn», la retorica è tutto per gli HammerFall.
La title-track parte con accordi saturanti e ritmi solenni. Sulle strofe Cans lamenta qualche indecisione sui registri più alti, mentre il ritornello, come il titolo del pezzo, è esile ma ficcante. L’assolo della 6-cored è passabile, il finale suona vicno ai Blind Guardian. Senza un attimo di respiro il singolo “Bushido” mantiene l’album su lidi sostenuti. Come già detto in sede di recensione, si tratta di un brano senza infamia e senza lode, che non staglia più di tanto in una scaletta dove un brano è facilmente intercambiabile con gli altri.
Dopo la coda in tapping è la volta della breve e poco riuscita “Live Life Loud”, dal titolo allitterante (e complemento oggetto interno) che ricorda “Life is now”, brano tratto da No Sacrifice, No Victory (chissà cosa ne ha pensato la Vodafone ai tempi!). “Ex Inferis” è, d’altra parte, un pezzo monotono, con ritmiche più che heavy, e un ritornello dalla curiosa prosodia latina. Una skip-song che ricorda la composizioni più compassate e finniche degli Stratovarius. Va meglio con “We Won’t Back Down”, canzone più movimentata e con un solo in stile helloweeniano.
Fin qui i ritmi sono stati più che sostenuti (anche “Ex Inferis”, visti i testi, non è facile da digerire); ecco, perciò, spiegato l’arpeggio semiacustico in avvio di “Winter Is Coming”. Si tratta di una ballad anodina, che serve, però, nell’economia del full-length, a far rifiatare l’ascoltatore. Non siamo, tuttavia, sui livelli di ballate storiche degli svedesi, come “I Believe” o “Remember Yesterday”, e Cans nel finale osa un acuto pessimo.
Ottimo, invece, l’inserto di clavicembalo in “Origins”, tra i migliori brani del platter: una traccia power compatta e con pochi fronzoli, tanta doppia cassa e guitarwork affilato. I testi sono banalissimi, ma faranno la gioia dei fan imberbi più idealisti, contenti di sentir narrare vicende tautologiche («We are what we are») e di «brothers in arms», «blood of true warriors» e un filosofico «together is one».
Senza concedere una virgola a ciò che non è metallo fuso, “Tainted Metal” viaggia su binari d’acciaio e presenta buone melodie e un assolo gustoso, ma la struttura del brano è in sé troppo ripetitiva e scontata. Nel finale ci sono cori di un’epicità dimessa e qualche buona trovata alla batteria, ma niente più.
Traccia più cattiva del lotto, “Evil Incarnated” parte con svisate simil Primal Fear, poi prosegue con allusioni luciferine e voci malefiche, che danno un minimo di senso all’individualità del brano, terminante con l’ennesima parte a cappella.
Gli HammerFall sono prevedibili, dicevamo, ma spesso in conclusione d’album stupiscono (penso a brani come “Glory to the Brave”, “Hero’s Return”, “Knights of the 21st Century”). L’inferenza vale anche questa volta: ultima/unica vera sorpresa del disco è la pirotecnica “Wildfire”, pezzo dall’incedere al cardiopalma, un refrain esplosivo e un breve assolo di basso al terzo minuto. Un finale brillante per un full-length discreto, ma per niente innovativo.
Per trarre qualche considerazione sintetica, si può dire che (r)Evolution ripropone gli HammerFall nella veste più classica del gruppo scandinavo, senza, però, l’entusiamo creativo degli anni Novanta. Un po’ come avvenuto con gli Helloween di Rabbit Don’t Come Easy (giusto per citare una band famosa), gli svedesi, come a corto di idee, puntano tutto sui fasti del passato, volendo riconfermare la loro consacrazione a templari del metallo. Il combo di Dronjak & Co. può essere, altresì, accostato ai già citati Primal Fear (certo, però, che Scheepers vale dieci Cans!): sempre ottima musica, la loro, ma monolitica.
I fan di vecchia data apprezzeranno l’album, più in generale i metaller nostalgici, ma di sicuro non è ripercorrendo le orme già calcate più di due lustri addietro, che si mantiene viva la fede nella musica che amiamo.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)
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