Recensione: Riders of the Ancient Storm

Di Stefano Usardi - 24 Ottobre 2023 - 16:25
Riders of the Ancient Storm
Band: Heavy Load
Etichetta: No Remorse
Genere: Heavy 
Anno: 2023
Nazione:
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75

Quarant’anni e non sentirli. Tanti infatti ne sono passati dall’ultimo album degli svedesoni d’acciaio Heavy Load, quello “Stronger than Evil” datato 1983 che fino a qualche settimana fa aveva costituito il vero e proprio testamento musicale del combo nordico. Per dirla tutta i nostri sono tornati a farsi sentire già da qualche tempo, ma se finora si era trattato di comparsate a qualche festival è con questo “Riders of the Ancient Storm” che i vecchi leoni tornano a ruggire, e lo fanno nell’unico modo degno di loro: come se questi quarant’anni non fossero mai passati. Fin dalla prima occhiata alla copertina di “Riders of the Ancient Storm”, così cafona e démodé, si percepisce come il tempo per gli Heavy Load si sia fermato alla prima metà degli anni ’80, e ascoltando l’album l’impressione trova conferma: i suoni sono ancora quelli, la portanza dei pezzi anche, il tiro pure e, cosa che mi ha stupito di più, la voce di Wahlquist non sembra invecchiata di un giorno. Ciò ammanta “Riders of the Ancient Storm” della sua aura così particolare, che emana personalità e coerenza senza sacrificare nulla all’altare del vecchiume fuori tempo massimo. Otto pezzi per quarantanove minuti, durante i quali i nostri dispensano a piene mani il loro modo di intendere il metallo: quel mix così particolare di hard&heavy, ritmi pulsanti e melodie piacione punteggiato qua e là da ispessimenti più cupi o solenni o da impennate trionfali e guardato a vista dai loro classici cori ultra melodici.

La partenza è ficcante: “Ride the Night”, scelta non a caso come singolo apripista, si muove lungo i classicissimi binari di scuola Heavy Load grazie al suo fare drittissimo, ruffiano e graffiante, illuminato dall’ugola d’oro di Ragne e da un’immediatezza di fondo tanto familiare quanto sbarazzina. Con “We Rock the World” i nostri abbassano i toni, buttandosi a capofitto in un pezzo in cui vibrazioni blueseggianti si innestano su una base ben ancorata alla sfacciataggine degli anni ’70, mentre “Walhalla Warriors” indurisce la portanza del pezzo precedente per avanzare con un fare arcigno, scandito. I ritmi si mantengono lenti, squadrati, infiammati da sporadici lampi melodici e dall’intervento dei cori che donano solennità al tutto asciugandone un po’ la ripetitività di fondo. “Angel Dark” allenta la tensione per tornare a ritmi più propositivi, sfruttando una base di riff quadrati su cui si innestano di volta in volta melodie più languide o solari. Lo scarto centrale instilla nella composizione un fare solenne, dal retrogusto quasi esotico, prima di tornare alle melodie già sentite in tempo per il finale, ma non basta a mio avviso a ripulire il pezzo da una certa monotonia. Si arriva alla lunga “Slave no More”, che fin dal suo incipit fa capire di che pasta è fatta. Il pezzo, infatti, è la classica colata di metallo rovente tutta giocata su ritmi lenti, estenuanti, dalla pesante inflessione doom. Anche il cantato si fa più teso, inquieto, abbandonando le scorribande melodiche per incedere con un fare più trattenuto. Il pezzo monta la tensione ricorrendo a brevi e ripetuti climax che trovano compimento nella sezione solista prima di precipitare di nuovo nel suo gorgo sulfureo. “Raven is Calling” parte determinata, mantenendo un piglio arcigno nel cantato che si carica di enfasi nel ritornello. La sezione solista profuma tanto di vecchia scuola e dispensa classe e feeling senza troppe ostentazioni prima di tornare nei ranghi. Una fanfara marziale apre la successiva “Sail Away”, scivolando via in un attimo per lasciare al centro della scena un mood languido e sinuoso che si carica pian piano, esplodendo nel ritornello per tornare alla lenta risacca della strofa. Questo moto ondoso a metà strada tra elegia ed enfasi ammanta tutto il pezzo, coronato da un’intromissione solista che, come nella traccia precedente, si dimostra semplice ma ispirata fungendo da ideale ciliegina sulla torta. La calata del sipario è affidata a “Butterfly Whispering”, una lunga strumentale acustica – presente nella versione CD – che, se da un lato si dilunga un po’ troppo, dall’altro chiude l’album con una nota fuori dal tempo, una sorta di sospensione persistente in un mondo diverso, estraneo, in costante attesa (ma senza trepidazione) di qualcosa che dovrebbe accadere da un momento all’altro.

Vi dirò: sono stato abbastanza colpito da questo ritorno sulle scene. Gli Heavy Load non mi hanno mai preso più di tanto e temevo che se ne uscissero con un lavoro troppo scolastico e spompato senza un granché da dire. Invece scopro che “Riders of the Ancient Storm”, pur essendo effettivamente un po’ manierista, mette sul fuoco una ben più che soddisfacente quantità di ciccia e se la cucina a dovere, grazie a una scrittura semplice e diretta ma tutt’altro che sciatta e un piglio coerente ed appassionato. Non posso pertanto esimermi dal considerare “Riders of the Ancient Storm” un bel ritorno in pista per il gruppo di Stoccolma, che riattizza la vecchia fiamma nei cuori dei fan in un modo che, pur senza far gridare al miracolo, difficilmente poteva essere migliore di così.

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