Recensione: Riders Of The Apocalypse

Di Matteo Bovio - 2 Agosto 2004 - 0:00
Riders Of The Apocalypse
Band: Demonoid
Etichetta:
Genere:
Anno: 2004
Nazione:
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70

Nascono come side project di uno dei componenti dei Therion, e l’intento dichiarato è dar vita a un Death / Thrash con richiami ad atmosfere tipicamente Black. Buttate poi un’occhiata ad artwork e titoli… Bè, il minestrone è fatto, direte voi. E invece no: i Demonoid sono un progetto coerente, con qualcosa da dire, e che non si perde in futilità. Però mi fermerei qua con l’entusiasmo: purtroppo siamo davanti a dei bravi mestieranti, o comunque poco più.

Tra i mille modi esistenti per miscelare Death e Black, il gruppo ne ha sicuramente trovato uno particolare. Questo non significa tuttavia che la loro strada sia completamente nuova, nè tantomeno stravolgente. Le due componenti viaggiano principalmente alternandosi, trovando poche volte un terreno comune su cui esprimersi. Quando i nostri suonano Death metal, il suono risolve sia sugli standard della scuola americana che di quella europea. Da qui poi dimostrano una grande abilità nello scivolare su armonie parecchio melodiche, che rimandano appunto al Black meno ostico.

Se in atteggiamento critico si deve per forza riconoscere una grande abilità nel songwriting, quando si passa all’ascolto fine a sè stesso le cose cambiano. Per quanto apprezzi la varietà che Riders Of The Apocalypse può vantare, certe volte i diversi episodi sembrano proprio puntare su ambienti troppo contrastanti. Mi riesce difficile ad esempio intendere attacchi come quello di “Witchburner” una volta superate le esigenti armonizzazioni di “Firestorms“… L’unico collante è la sezione ritmica, sempre di palese ispirazione Thrash / Death. Ma gli strumenti in sè non bastano a dare personalità a un lavoro.

Da qui il mio voto, forse un po’ basso per un platter simile. Se i primi ascolti mi suggerivano una maggiore elasticità, l’assimilazione di tutte le tracce mi ha portato a vedere oltre l’esecuzione impeccabile, la registrazione pompata e il songwriting in perenne trasformazione. Mi ha portato a considerare le canzoni nella loro totalità, e poi a fare lo stesso discorso per il lavoro intero. La mia visione è ora quella di un insieme di frammenti, che dei bravi musicisti hanno assemblato a dovere, ma che non fanno parte di una stessa idea di fondo. Se ci sono momenti memorabili (in “Hunger My Consort” riscono a lasciarsi andare ad uno stacco in pulito degno delle migliori intuizioni di In Flames e soci), la gran parte dell’album è composta da parentesi molto anonime.

In sostanza l’album è molto gradevole, anche se l’odore di progetto costruito a tavolino si fiuta a distanza… La cosa non mi infastidisce particolarmente, e potrebbe anche trattarsi di un’impressione che future circostanze smentiranno, ma non vorrei che l’attuale spinta che l’etichetta sta dando a questo gruppo gettasse del gran fumo negli occhi; questo cd non è il futuro dell’estremo, non è un punto di svolta, non è l’episodio del 2004… è semplicemente (e già non è poco!) un buonissimo album di bravi musicisti, orientati verso soluzioni solo apparentemente innovative. Il capolavoro di cui, ahimè, ho già avuto modo di leggere in giro è al momento un punto di arrivo da conquistare con tanto sudore.
Matteo Bovio

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