Recensione: Riotology

Di Daniele D'Adamo - 20 Febbraio 2011 - 0:00
Riotology

Band capace di generare uno spettacolare incrocio fra thrascore e deathcore ( = ‘modern metal’?), gli austriaci Artas propongono con decisione il loro secondo full-length, “Riotology”, di ruota al debut album “The Healing” (2008). Come così si apre (“The Healing”), la loro breve discografia si chiude (“Riotology”): niente demo, EP e quant’altro di embrionale. Evidentemente, il combo di Vienna – dalla sua formazione, avvenuta nel 2006 – ci ha messo poco tempo a focalizzare con precisione le coordinate stilistiche entro cui muoversi per scrivere i due album.

Le ultime leve (si possono citare, anche, gli Heaven Shall Burn, i Nearea, gli Hatesphere, i But We Try It…), in virtù di un intrinseco vigore figlio della giovane età, sviscerano con una spontaneità invidiabile delle terrificanti bordate di potenza pura, frutto, altresì, del fragoroso cozzo fra i vari strumenti che, ben confinato da un’irreprensibile abilità esecutiva e da un ineccepibile processo produttivo (missaggio, masterizzazione, produzione), consente di ottenere un suono davvero ‘sfascia-timpani’. Attenzione, però. I watt sono tutti, e si sottolinea ‘tutti’, concentrati in una forma dai contorni lineari e ben definiti: niente caos, insomma. Come dire: «una mazzata sui denti, precisa; anzi chirurgica!».

È subito evidente, scorrendo i brani di “Riotology”, l’originale idea avuta dai viennesi nella dedica dei temi alle forme di ribellione sia come concetto generale, sia come approfondimento per alcuni Paesi; con il conseguente onere della stesura dei testi nelle rispettive lingue natìe (tedesco per “Gipfelstürmer”, spagnolo per “No Pasaran”, francese per “Le Saboteur” e, naturalmente, inglese per il resto). Buon per Hannes che, oltre ad avere avuto la possibilità di utilizzare più idiomi, si rivela anch’egli un abile miscelatore, poiché si destreggia con pari abilità nel growl, nello scream e nelle parti in clean. Non di meno, mostra altrettanta abilità – assieme a Obimahan – nell’esecuzione dei terribili riff compressi che formano l’intelaiatura di un suono impossibile da demolirsi. Per rendersene conto, basta ascoltare l’inizio di “Fortress Of No Hope”, vero virtuosismo del palm-muting data l’incredibile precisione con cui fraseggiano i plettri dei due chitarristi.
A proposito di canzoni, “Riotology” è suddiviso in tre parti, separate da quattro stacchi acustici (attimi di calma durante la tempesta…) assai dolci e melodici: “A Journey Begins…”, “O5”, “O5” e “… Surrounded By Darkness We Are Able To See The Stars”. Anche in questo caso, l’idea si dimostra buona per spezzare la tensione posseduta dalle poderose song elettriche.

Malgrado queste buone trovate, lo stile su cui s’imposta il sound del disco non presenta particolarità né d’innovazione, né di progressione. Botte come “The Day The Books Will Burn Again” scuotono sì le budella, ma non sono diverse da quelle che menano tanti altri ensemble che bazzicano in questo genere. Si tratta quindi di una successione di canzoni dalla potenza debordante, aggressiva e cattiva; nella quale spicca, a volte di più (“The Suffering Of John Doe”, “Le Saboteur”) a volte di meno (“Fortress Of No Hope”), una melodia mirata a essere il più accattivante possibile. Attimi di furia parossistica (incipit di “Rassenhass”, “No Pasaran”) si accostano a break rallentati (“Ashes Of Failure”, da far saltare le vertebre cervicali) o addirittura a stop’n’go (“Between Poets And Murderers”). Quest’insieme dei pezzi è la cartina al tornasole di un gruppo capace di eseguire senza sbavature – anche quando va via veloce – il proprio stile, sicuramente determinato e chiaro. Tuttavia, poco originale. E, come lo stile, anche le singole composizioni non mostrano picchi di qualità artistica che possano attirare a lungo l’attenzione di chi ascolta. Fra esse non ci sono cadute di tensione, certo; ma non c’è nemmeno quel ‘qualcosa in più’ tale da elevare gli austriaci dal rango di meri epigoni dei migliori.

“Riotology” è discreto lavoro, nel complesso. La tecnica posseduta dai ragazzi della Città del Valzer è più che buona. Fresca, moderna e professionale. La capacità di componimento non produce, invece, effetti che oltrepassino una risicata sufficienza. Le armonizzazioni sono abbastanza scontate, mancando dell’‘effetto sorpresa’ che esplode quando ci si trova davanti a un brano, invece, baciato dalla musa Euterpe. Il metal potrà essere ‘moderno’ quanto si vuole, potrà essere suonato anche perfettamente; ma se manca il talento compositivo, non si va molto lontano. Ed è ciò a cui tende, ahimè, il futuro degli Artas.

Daniele “dani66” D’Adamo

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Track-list:
1. A Journey Begins… 0:59    
2. Fortress Of No Hope 5:48    
3. The Day The Books Will Burn Again 4:08    
4. The Suffering Of John Doe 5:49    
5. Rassenhass 5:29    
6. O5 2:35    
7. No Pasaran 5:05    
8. The Grin Behind The Mirror 3:44    
9. Gipfelstürmer 4:32    
10. Le Saboteur 4:35    
11. Mediafada 4:46    
12. O5 1:36    
13. Ashes Of Failure 5:29    
14. Between Poets And Murderers 5:55    
15. A Martyr’s Dawn 5:10    
16. … Surrounded By Darkness We Are Able To See The Stars 2:00

All tracks 67 min. ca.

Line-up:
Hannes – Vocals/Guitar
Obimahan – Guitar
Sid – Guitar
Radek – Bass
Chris – Drums