Recensione: Rise
Con una prolifica carriera solista tutt’ora attiva, Steven Lee Unruh (in arte semplicemente Steve Unruh), polistrumentista statunitense di Providence, dà vita nel 2008 ai Resistor, band della quale è il mastermind. Dopo il debut omonimo vede la luce nel corrente 2010 Rise, seconda prova che merita tutta l’attenzione del caso.
Proposta davvero interessante la sua, fatta sostanzialmente di progressive rock condito da elementi folk, grazie all’uso di violino e flauto traverso da lui stesso suonati, e che non disdegna le escursioni in un rock più classico mutuato in maniera del tutto evidente dai gloriosi anni settanta.
Il platter consta di due parti ben divise, tanto da presentare a metà una traccia intitolata Changing Sides, nella quale si possono ascoltare i rumori dell’ascoltatore intento a girare il vinile.
Due parti, si diceva, che sono le due facciate di un ipotetico long playing: la prima composta da cinque brani indipendenti, la seconda interamente occupata dalla lunga suite in dieci movimenti dal titolo The Land Of No Groove: quasi quaranta minuti di ottima musica ad incorniciare una storia surreale nella quale l’ironia gioca un ruolo fondamentale.
Steve non solo suona chitarra, flauto e violino, ma canta anche; e lo fa con una carica espressiva tale da ricordare a tratti Ian Anderson; non tanto nel timbro, quanto nell’interpretazione sovente sopra le righe. E’ peraltro ben coadiuvato dagli altri musicisti della band, Barry Farrands (ottima prova la sua) alla batteria su tutti.
E’ The Secret of the Open Sky ad aprire le danze, e non potrebbe esserci inizio migliore, con un riffing deciso ed una prova vocale variegata e molto riusicta. Il violino fa bene la sua parte quando è chiamato a rafforzare il sound, e la scelta di far occupare ad ognuna delle due chitarre un canale consente di apprezzare appieno il lavoro alla sei corde di Unruh e Turner.
In Masquerade si cambia registro e siamo su atmosfere decisamente più soft. Qui è il basso a farsi notare principalmente, assieme al brillante chorus.
Spaceghetti è un pezzo strumentale sul quale le galoppate al basso di Winslow ed alla chitarra di Turner sorreggono il violino di Unruh, indiscusso protagonista, per formare un’atmosfera da pseudo spaghetti western anacronistico. Semplicemente bellissimo il brano, anche quando il solo di chitarra lo riporta sulla terra fino a lasciare spazio al violino nuovamente; si torna poi all’irresistibile tema iniziale. Composizione veramente da incorniciare.
Segue Ether, sorretta da un’atmosfera di tooliana memoria, decisamente oscura e dominata dalla batteria di Farrands e da un giro ipnotico e circolare di chitarra.
A chiudere il virtuale side A del lavoro sono i sedici minuti di Mimosa ed il suo incedere decisamente soft, che ci porta dalle parti di Canterbury grazie alla sua eleganza e ad un pregevole solo di flauto. La sterzata rock giunge dopo quasi cinque minuti grazie ad un riffing sincopato che guida la voce di Unruh, abile a seguire i ritmi dettati dalle chitarre. Il ritorno ad un’atmosfera più calma giunge per merito di un grazioso assolo di violino; si torna così al tema iniziale, il quale lascia a sua volta campo libero alle chitarre per concludere il tutto nel miglior modo possibile. Si chiude così la prima parte del platter, lasciando solamente impressioni positive e soddisfazione per quanto si è ascoltato.
E’ giunto il momento di addentrarsi nel viaggio di The Land of no Groove, nel quale i nostri quattro musicisti si congedano dalla terra in questione per partire alla ricerca di una landa dove il groove esiste e dona sollievo alla sete di musica dei protagonisti. Il prologo paga decisamente dazio ai Jethro Tull, con il suo incedere rock e l’eccellente assolo di Steve al flauto. E’ solo l’inizio di una spedizione esplorativa che condurrà i protagonisti attraverso la pianura polverosa di Dusty Plain, la dentellata montagna di Jagged Mountain, fino alla costa, sempre perseguitati dai megafoni istituzionali che diffondono disco music.
Un’evidente vena ironica permea l’intera composizione, riprendendo le surreali narrazioni tanto care ai musicisti di un tempo che fu, e risulta impossibile, per questo aspetto, non farsi balzare alla mente l’ironia tagliente di un disco quale Thick As a Brick.
Unruh risulta carismatico sia quando galleggia con la voce trasportato dai riff di chitarra sia quando, come nella già citata Jagged Mountain o in Off to the Sea, assume il ruolo di narratore, scoprendo una vena recitativa molto coinvolgente. E quando canta compassato come in Land’s End conferma non solo di saperlo fare egregiamente, ma anche di essere in grado di interpretare ciò che narra nel modo più appropriato possibile.
Non mancano neanche nella suite i momenti incentrati sul folk rock trascinato dal violino, come si può ascoltare nella breve ma godibilissima Off to the Sea, durante la quale i musicisti si imbarcano, sempre con gli strumenti al seguito, per continuare il proprio viaggio alla ricerca del groove negato. Durante la navigazione si vedono costretti a combattere con un mostro marino. Spetta a Farrands, dopo aver assemblato il proprio drumkit, sconfiggerlo con una serie di fill; è proprio un assolo di batteria a rappresentare l’attacco verso il mostro, a sua volta interpretato dalla chitarra di Unruh, per un duetto che appare come un’idea brillante all’interno di una composizione che, già di suo, è un piccolo capolavoro.
Finalmente i protagonisti giungono all’isola del groove, nella quale altri musicisti si sono rifugiati tempo addietro per fuggire dalla mainland e dai suoi altoparlanti. Ma a Steve non basta, e la sua nuova sfida è quella di convincere gli abitanti dell’isola a tornare per mettere in piedi una rivoluzione musicale.
Dopo il viaggio a ritroso, una volta raggiunta la mainland, i rivoluzionari metto in piedi una jam band di sedici elementi; la loro musica farà crollare gli altoparlanti e sconfiggerà la “musica senza senso”:
Singin’, “You can’t stop it now, the music’s taking over, people!
Singin’, “You can’t fight it now, the Groove is gonna overthrow!
Groove Revolution si muove lungo un riff che omaggia i Doobie Brothers, portando a compimento un’avventura davvero divertente dal punto di vista narrativo e coinvolgente e piacevole da quello musicale, quest’ultimo ben distribuito tra rock e progressive entrambi debitori degli anni settanta e proprio dai seventies ispirati.
Rise è un disco pregno di amore per gli anni gloriosi del rock progressivo, amore che si palesa soprattutto nella suite conclusiva, gioiellino tanto dal punto di vista compositivo quanto da quello esecutivo. L’assenza delle tastiere, peculiarità per un lavoro del genere, non si fa affatto notare; anzi, dove non arrivano le chitarre a saturare il suono ci pensano flauto e violino, entrambi suonati egregiamente da Unruh.
Vale davvero la pena di ascoltare quello che i Resistor hanno da proporre, perchè oltre all’evidente passione che permea le note di Rise è impossibile non riconoscere l’ispirazione che ne sta alla base.
E’ sempre una gioia imbattersi in artisti che amano così tanto la musica. Quella vera.
Massimo Ecchili
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Tracklist:
01. The Secret of the Open Sky 7:00
02. Masquerade 4:40
03. Spaceghetti 5:19
04. Ether 5:43
05. Mimosa 16:04
06. Changing Sides 0:33
07. The Land of No Groove 39:18
I. Prologue 3:43
II. Dusty Plain 3:23
III. Jagged Mountain 4:59
IV. Land’s End 3:48
V. Off to Sea 2:36
VI. Sea Monster Battle 5:29
VII. The Isle Appears 2:17
VIII. Convincing the Islanders 5:01
IX. Sailing Home 3:07
X. Groove Revolution 4:55
Line-up:
Steve Unruh: vocals, guitar, flute, violin
Barry Farrands: drums, vocals
Fran Turner: guitar
Rob Winslow: bass