Recensione: Rise
Meno male che ogni tanto qualcuno dei cosiddetti supergruppi si affranca dalla natura effimera tanto spesso innata a tali progetti e dà continuità a una proposta meritevole di riceverla.
È questo il caso dei Revolution Saints, che sono la bella somma di nomi non esattamente da poco come Deen Castronovo, Doug Aldrich e Jack Blades, gente che ha nel proprio curriculum band del calibro di Journey, Whitesnake, Bad English e Damn Yankees.
Rise è il terzo disco prodotto dalla band statunitense in un lustro, prodotto dalla sapiente mano di Alessandro Del Vecchio, prestatasi anche a collaborare in fase di scrittura.
Al netto dei nomi altisonanti e della produzione (ovviamente) ideale, a contare è la qualità della musica, che ancora una volta si assesta su livelli alti. Tra tutte le possibili influenze cui i musicisti coinvolti nei Revolution Saints possono attingere, quella dei Journey sembra prendere il sopravvento in questo Rise, pur evitando il rischio di soffocare la freschezza delle composizioni, che rimangono dotate di una certa personalità.
La opener When The Heartache Has Gone ben rappresenta l’intero disco, con quel piacevole piglio ottantiano che rimanda inevitabilmente alle atmosfere di quel Frontiers la cui importanza per il genere è tale da dare il nome all’etichetta su cui Rise è pubblicato. Decisamente non è facile porsi un modello tanto alto senza sfigurare: When The Heartache Has Gone riesce nell’impresa, grazie all’esperienza dei musicisti, che arricchiscono l’ottimo songwriting con un arrangiamento e, nel caso di Aldrich, con un assolo che sa restare in equilibrio tra eleganza e aggressività un poco tamarra. Insomma, un gran pezzo.
Ma tutto Rise è un godimento per il rocker più o meno d’annata. Price To Pay è un mid-tempo tanto risentito quanto raffinato e, in ultima sostanza, amabile. La title-track richiama forse più i Damn Yankees che non i Journey, in virtù di un piglio molto diretto, sostenuto da un drumming presentissimo tra charleston aperti e crash che scandiscono il ritornello.
Meritevole di qualche parola è la quasi melanconica Coming Home, odorosa del cheap perfume journeyano che accompagna i sogni di chi attraversa gli States su un bus, in cerca di chissà quale gloria. E melanconia lo è davvero Closer, ballad classica, ben scritta benché priva di una vera ispirazione.
Non manca quel che momento più debole: Higher fa il paio con Rise senza aggiungere un granché, mentre Talk To Me ospita la singer Lunakaire e non incide. Per fortuna, arriva la buona It’s Not The End (It’s Just The Beginning) e, soprattutto, l’accoppiata Million Miles e Win Or Lose, pezzi tirati molto debitori dei Journey che è sempre un piacere ascoltare.
Infine, Eyes Of A Child porta la firma di Tommy Shaw, altro ex Damn Yankees (e, soprattuto, per sempre Styx). Dolce ballad, Eyes Of A Child esula un poco dall’atmosfera scanzonata di Rise, ma suona come una eccellente conclusione del disco, rompendone il ritmo proprio in uscita.
Rise conferma la qualità delle produzioni dei Revolution Saints. Chi ama l’AOR e l’hard rock di classe non potrà non apprezzarlo. Pur ancorato fortemente agli anni ottanta, irraggiungibile apice, il genere ha saputo mantenersi fresco, rinnovandosi il giusto, più nei suoni che nella scrittura e così mantenendo la propria base di fan, che ha trasceso le generazioni. Tutto ciò grazie anche a dischi come Rise e a progetti come quello dei Revolution Saints, che è un peccato sapere che non hanno intenzione di portare i tour la propria produzione.