Recensione: Rise of The Animal
Il branco di lupi teutonici ha partorito un’altra bestiola, ovviamente dalla pelliccia placcata di metallo.
“Rise Of The Animal” è la terza uscita dei Wolpakk, progetto all-stars allevato dal duo Mark Sweeney (ex Crystal Ball) e Michael Voss (Casanova e Mad Max), cantanti e songwriters che non hanno mai raggiunto il grande successo a livello individuale, ma si sono costruiti insieme una nuova e salda reputazione grazie a questa saga mannara. La pista da annusare è la stessa dei precedenti due capitoli, l’ omonimo debutto del 2011 e Cry Wolf, targato 2013, ovvero puro metallo di tradizione tedesca, quadrato, roccioso, pesante, rasoiate di riff e quei cori antemici da stadio come scuola Helloween (o Accept, Grave Digger, Gamma Ray… fate voi!) insegna. Il tutto impreziosito dalla partecipazione di stelle di primo livello nel firmamento rock/metal che fanno levare in alto l’ululato dei Wolfpakk.
“Rider of the Storm“è un classico pezzo power che si apre con un bel arpeggio di chitarra e un crescendo martellante della batteria, affidata a Mike Terrana (e si sente!) mentre il primo a prendere parola è Andi Deris con un timbro graffiante ed oscuro molto vicino alle ultime prove degli Helloween. Il singer divide le strofe con i due capobranco, in uno schema che sarà la linea guida dell’ intero disco, appropriandosi del chorus solo nel finale. Bella partenza. La successiva “Sock it to Me“, primo singolo estratto, è un altro bel brano tirato e grezzo, con l’impegno di Marc Storace (Krokus) a donare al brano un’impronta più hard rock. Il primo intoppo è la poco convincente “Monkey on your Back“, troppo forzata nella ricerca del coro anni 80, nonostante la presenza dell’ex Danger Danger Ted Poley, autore comunque di una buona prestazione.
Con “Highlands“, aperta da una suggestiva atmosfera celtica, si tocca uno dei vertici dell’album grazie ad un Joe Lynn Turner in splendida forma nel ritornello arioso, contrappuntato da cornamuse appena accennate, che poi si scatenano a cavallo dell’assolo e sul finale in un’andatura folk danzereggia e festaiola. L’acceptiana “Black Wolf” mostra le zanne in un midtempo battagliero, con il vocione di Rick Altzi dei Masterplan protagonista di una prova ringhiante cui si adeguano i solitamente più soft Voss e Sweeney. Brano sul quale l’ascoltatore tornerà più volte. I lupi incespicano di nuovo in un mero filler, “Somewhere Beyond“, che invero nell’incipit possente fa ben sperare, perdendosi però in un coro da pub assolutamente fuori contesto. Peccato perchè viene così resa inutile la presenza di David Reece, uno dei grandi perdenti della storia del metal, colpa quella infausta sostituzione di Udo Dirkschneider negli Accept anni or sono, ma che meriterebbe una rivalutazione a posteriori vista la gran voce. Occasione persa.
Ci pensa “Running Out of Time” a rimettere i lupi sulle tracce giuste, con il suo power metal catchy e radiofonico, graziato dal timbro caldo di Mr. Don Dokken. L’inventore del class metal si muove sinuoso e a suo agio nel refrain che gira alla grande. L’assolo di Dough Aldrich (Whitesnake) è la zampata finale di un brano vincente da ascoltare e ri-ascoltare.
Altri due riempitivi da zompare a piè pari, ovvero la pachidermica “Grizzly Man” e la leggera “High Roller“, vedono mal utilizzati musicisti di prim’ordine come Bob Daisley, Simon Philips e Chris Slade, precedendo la lunga title track di quasi nove minuti dove c’è lui, l’infallibile, monumentale Micheal Kiske, a deliziarci con melodie epiche e trionfali nel ritornello che riporta alla mente i migliori Avantasia. Dà un morso alla preda anche il guitar hero tedesco Axel Rudi Pell, sciorinando un grande assolo in quello che è il pezzo da novanta del disco.
Dopo un simile viaggio, la corsa dei lupi si conclude sulle note sontuose della ballad “Universe” e il canto lirico della brava Michaela Schober, lasciandoci con qualche bel brivido.
Rise Of The Animal si dimostra quindi superiore ai suoi predecessori, la produzione è moderna e perfetta, gli amanti del power metal possono andare sul sicuro. Il vero problema sono quella manciata di brani a vuoto che abbassano la media, non permettendo loro di porsi alla pari di progetti blasonati come Avantasia o Ayreon. I due capo branco vocalmente si somigliano troppo, entrambi ricordano un mix tra Sammet e Joe Elliot e senza libretto sott’occhio si fa fatica a distinguerli. Altra pecca, a mio avviso, sta nell’aver distribuito gli ospiti a disposizione uno per pezzo, invece di creare duetti tra loro che avrebbero reso maggiormente appetibile il piatto.
E magari con un duetto tra Kiske e Deris…