Recensione: Risen
Incredibile ma vero, mai avrei creduto di poter rivedere in azione gli Angel di Punky Meadows, Frank DiMino e Greg Giuffria. Ad onor del vero quest’ultimo non è più della partita, ma gli altri due hanno fatto squadra e dopo aver recentemente dato alle stampe due ottimi lavori solisti – rispettivamente “Fallen Angels” (2016) e “Old Habits Die Hard” (2015) – sono “risorti” con quello che a tutti gli effetti è il sesto studio album della band. “Sinful” (pubblicato anche come “Bad Publicity“) data ormai 1979, successivamente tutta una serie di raccolte celebrative più o meno ufficiali avevano mantenuto vivo il mito per qualche anno, ma figurarsi un ritorno in pompa magna (e guardaroba bianco accecante) degli Angeli di Washington D.C. era francamente impensabile. Tuttavia le vecchie abitudini sono dure a morire, parafrasando DiMino, ed ecco che il sogno si è tramutato in realtà, con la complicità di qualche Cerchia delle sfere celesti evidentemente. In epoca di reunion quella degli Angel parrà soltanto l’ennesima ma non è così, per svariate ragioni. Tra queste, le più importanti sono il livello di leggenda al quale è assurto il combo (già durante la propria prima incarnazione) ed il valore qualitativo di quanto i nostri sono riusciti a riproporre ben 40 anni dopo l’ultimo loro capitolo discografico di inediti.
A beneficio di coloro i quali – loro malgrado – fossero vissuti fino ad oggi senza sapere un’acca degli Angel, la band venne letteralmente scoperta e raccomandata da Gene Simmons alla allora casa discografica dei Kiss, la Casablanca. Si innescò un derby clamorosissimo tra le due formazioni (all’interno del quale andrebbe in realtà anche inserito perlomeno un terzo incomodo, i New York Dolls, senza contare le eco provenienti dal sound lisergico e alieno di un certo David Bowie e dalle reminiscenze sempiterne dei Beatles), con gli Angel ad incarnare il lato chiaro, aureo e luminoso del rock, in contrapposizione con le maschere kabuki dei Kiss, i rigurgiti ematici on stage del demone impersonato da Simmons e la trasgressione selvaggia dei primi oltraggiosi anni del Bacio. Gli Angel calavano direttamente dall’empireo divino, atterrando sui palchi per deliziare le masse a suon di glam e pomposissimo rock ‘n’ roll. Per un po’ furono davvero in grado di competere e quasi surclassare i Kiss sul loro stesso terreno. Tutto ciò viene raccontato dagli stessi Angel in “1975” (anno dell’omonimo esordio discografico), bellissimo pezzo in crescendo, pieno di suggestioni ed atmosfere tipicamente “Angel” e cesellato da un chorus che rasenta la commozione.
“Risen” è un prodigioso esperimento che si trasforma in un’alchimia quasi perfettamente riuscita. Dico quasi perché in una generosa scaletta di ben 17 pezzi (comprendenti anche una rivisitazione del classicone “Tower“, forse il titolo più emblematico e rappresentativo della band, con il quale si apriva il debut album nel 1975), qualcosa si poteva epurare o smussare, per concentrare e compattare quanto di buono, se non di ottimo, messo sul piatto dagli Angel. Fatta eccezione per qualche lieve calo nella seconda metà del disco, mi riferisco alla un po’ (troppo) prevedibile e adolescenziale “I.O.U.“, alla non particolarmente fenomenale “(Punky’s Couch Blues) Locked Cocked Ready To Rock“, ad una “Tell Me Why” sin troppo evanescente e ad una “Stand Up” di passaggio, il restante materiale semplicemente spacca, anche considerando che DiMino e Meadows fanno 137 anni in due. Alla faccia del giovanilismo a prescindere, questi due vecchietti (le) suonano ancora di santa ragione e non è affatto un modo di dire. La voce di DiMino è identica a quella ascoltata sui dischi degli anni ’70, che lo zampino della tecnologia sia intervenuto o meno non sono in grado di dirlo, però la pelle d’oca la posso testimoniare, l’ho avuta lungo tutti i miei 190 cm di estensione corporea. Lo stregone bianco Meadows azzecca un riff dopo l’altro, una melodia dopo l’altra, erigendo un affresco di angeli da far invidia ai pittori rinascimentali. Bastano pochi minuti di ascolto e la Fede si rinnova immediata, ancora più ardente di prima se possibile.
Un album che, dato il contesto, è davvero un mezzo miracolo, visto che siamo a parlar di santi. Il livello medio è sorprendentemente alto; già i due singoli anticipatori dell’album, “Under The Gun” e We Were The Wild“, lo avevano fatto intuire, con il secondo in particolare che è una cascata di nostalgia innervata di adrenalina e grinta da ridurre l’ascoltatore alla resa tanto immediata quanto incondizionata. “Shot Of Your Love“, “Don’t Want You To Go“, “Our Revolution“, “Turn Around“, “Desire“, “Over My Head“, “Slow Down“, sono composizioni nelle quali si può riassaporare tanto l’anima più profonda degli Angel quanto la fortissima influenza dei Kiss, con i quali gli Angel avevano davvero molto a che spartire e che, in fin dei conti, sono stati un vaso comunicante poiché le due band, procedendo di pari passo, hanno finito col riversare l’una sull’altra i propri influssi ed ascendenti, contagiandosi vicendevolmente. Per altro l’album si apre con l’accenno dell’ “Angel Theme“, usato come intro, e che nel 1975 andava invece a chiudere lo strabiliante “Angel“, biglietto da visita con il quale il gruppo si presentò al mondo.
Non posso che parlar bene di questo “Risen“, la prova dei musicisti è di gran classe; ovvio che Charlie Calv non possa essere Giuffria, non ne offre la prestazione altisonante, creativa e superba che il buon Gregg avrebbe saputo dare, ma per qualche ragione il keyboardist poi transitato negli House Of Lords (dopo la parentesi affatto trascurabile con i suoi Giuffria) non ha preso parte alla reunion. Questo è davvero l’unico cruccio che può rimanere in canna ad un fan degli Angel perché per il resto, in tutta onestà, non era possibile aspettarsi niente di più. I vulcanici seventies di “Helluva Band“, “On Earth As It Is In Heaven“, “White Hot” sono irripetibili, ma fatti i distinguo del caso, considerati i di-a-da-in-con-su-per-tra-fra, non rimane che certificare che “Risen” è un notevole disco di pomp hard rock, dalle melodie eccellenti, prodotto da attempati ragazzi degli anni ’70 che hanno dato un colpo di coda di tutto rispetto e di grande autorevolezza. Finisse anche tutto così, per quanto mi riguarda il sipario calerebbe tra gli applausi scroscianti.
Marco Tripodi