Recensione: Risk
Waterloo, Caporetto, sconfitta. Esistono innumerevoli sinonimi ed espressioni per indicare il fallimento in un impresa e, in particolare, il primo dell’elenco si rivela molto calzante nel descrivere la disfatta cui andò incontro Mustaine con l’uscita di “Risk”. Le quotazioni e la credibilità dei Megadeth scricchiolavano già da parecchio tempo (“Cryptic Writings”,”Youthanasia” e, per certi versi, persino “Countdown To Extinction” erano stati accolti in malo modo da una fetta di volta in volta crescente di fan storici), ma se da un lato il responso di critica e aficionados non era stato dei più lusinghieri, il progressivo ammorbidimento delle sonorità aveva permesso a Megadave e compagnia di espandere ulteriormente il proprio pubblico.
L’impresa tentata (e per nulla nascosta) dal condottiero Mustaine, novello Napoleone, era quella di riuscire a replicare il grande successo di pubblico ottenuto dai “cugini” Metallica nei primi anni ’90 con il Black Album e con la doppietta “Load”/”Reload”, andando a smussare gli angoli più vivi della propria musica e rendendola più accessibile per le masse. Se fino a “Countdown..” e a “Youthanasia” la scelta aveva in ogni modo “pagato” (rispettivamente due ed un disco di platino negli U.S.A.), la situazione si fece viceversa paradossale quando i dati affermarono che con “Cryptic Writings” e “Risk” i Megadeth avevano venduto meno che in passato.
“Risk”, uscito nel 1999 e prodotto, come il predecessore, da Dann Huff, più noto come cantante e chitarrista degli AOR-heroes Giant, riuscì comunque ad issarsi al 16esimo posto della classifica Billboard 200 e a totalizzare oltre 500000 copie vendute negli Stati Uniti che gli valsero un disco d’oro. La disfatta non fu quindi di tipo “economico”, infatti l’album non fu un fiasco completo; il problema risiedeva viceversa nel fatto di aver voluto mutare così tanto il sound di un gruppo storico del thrash metal californiano scontentando i fan e anche gli stessi componenti della band (tra cui il dimissionario Marty Friedman), al fine di ottenere l’agognato successo planetario, per poi ritrovarsi invece con meno di quanto i Megadeth erano stati in grado di raccogliere negli anni ’80 e nei primi ’90.
Ok, ma dopo questo lungo excursus “storico”, vi chiederete, l’album com’era? Fin dalle prime battute dell’opener “Insomnia” era evidente la volontà di proseguire sul percorso tracciato dai tre precedenti album e altrettanto evidentemente spiccava, in negativo, il sound delle chitarre e in generale di tutti gli strumenti, mai così scarico in (allora) quindici anni di storia. Eppure se la canzone si fosse dimostrata di un certo livello saremmo stati, di certo, meglio disposti ad accogliere un tale cambio di sonorità rispetto anche solo a cinque-sei anni prima, ma il problema, prima ancora che nei suoni o nella prestazione dei singoli, risiedeva in un songwriting mai, mai così piatto, scontato e banale. La linea melodica era anonima e priva di mordente e non c’era nemmeno un assolo, un dettaglio di arrangiamento, una cosa qualunque che permettesse al brano di darsi una scrollata. “Prince Of Darkness” tentava di rialzare un po’ la testa ma, anche in questo caso, era proprio la fase compositiva a mancare di reali acuti e il risultato si rifletteva in un brano che si trascinava per ben sei minuti e mezzo, decisamente troppi in rapporto alla quantità e qualità delle idee espresse, proponendo qualche ritmica che strizzava timidamente l’occhio al passato ed un mini assolo di una pochezza quasi imbarazzante per un chitarrista delle capacità di Marty Friedman.
“Enter The Arena” fungeva da live intro, purtroppo molto artificiale, con i finti cori e battimani, per la successiva “Crush ‘em”, all’epoca lanciata come singolo traino, oltre che come brano portante della colonna sonora di “Universal Soldier: The Return” con Jean-Claude Van Damme, ed in effetti tra le cose migliori di “Risk”. Nulla di trascendentale ma un bel ritmo danzereccio, numerosi ammiccamenti all’hard/rock ‘n’ roll e il primo ritornello realmente efficace di tutto l’album. Il vero tonfo arrivava, tuttavia, con la seguente “Breadline”, nelle intenzioni, probabilmente, una ballata pop rock ipermelodica che risultava ad ogni modo del tutto inappropriata ai canoni espressivi dei Megadeth. Inutile, inoltre, sottolineare come il confronto con la gigantesca “A Tout Le Monde” fosse davvero impietoso. “The Doctor Is Calling” faceva l’occhiolino addirittura a certo shock/horror rock, inaugurata dall’inquietante voce di una ragazzina e interpretata da un Mustaine tutto sommato abbastanza a suo agio su tonalità che non sarebbero dispiaciute al vecchio Alice Cooper; il risultato non era complessivamente da buttare ma in ogni caso ben lontano dalle imprendibili vette qualitative del decennio precedente.
Di nuovo pop rock radiofonico (ameno nelle intenzioni) in “I’ll Be There”, un titolo che faceva (e fa tuttora) parte al più della tradizione pop/hair metal e che nessuno si sarebbe mai aspettato di ritrovare in un album dei ‘deth fino ad allora. Un gradino sopra i momenti peggiori di questo album ma la sensazione che questa musica, con questa band c’entrasse davvero poco è fortissima, tale da oscurare la canzone in sé e i suoi tiepidi pregi. Con “Wanderlust” era il turno della top track di “Risk”, l’unica assieme a “Crush ‘em” a poter reggere il confronto con gli ingombranti classici del passato: la linea melodica si dimostrava in questo caso davvero molto scorrevole e riuscita e la prova di Mustaine dietro al microfono era una delle migliori di sempre per una hard rock song per certi versi non troppo distante, in quanto ad atmosfere, da certe semi ballad elettroacustiche di fine anni ’80 tra stivaloni e cavalli d’acciaio.
Nuovo tonfo con la stucchevole “Ecstasy”, uno di quei brani che hanno di certo fatto urlare al cielo “Dave, perché??” a più di un metalhead, tali e tante le banalità messe in fila in un brano peraltro del tutto a corto di energie oltre che di ispirazione. Appena un po’ meglio “Seven”, per quanto resti un mistero il motivo per cui, all’alba del 1999, una band affermata come i Megadeth avesse pensato di darsi ad un hard rock tardo ottantiano guarnito da un’organo alla Deep Purple e coronato da un assolo che sicuramente sarà piaciuto a Slash, periodo “Contraband”. Se l’intento era di aggiornare il proprio sound, le tendenze che dominavano la scena ai quei tempi erano decisamente altre, sicché il brano di per sé non era inglorioso ma semplicemente inutile, oltre che inspiegabile da un punto di vista logico.
Chiudeva in maniera più che dignitosa la minisuite “Time”, divisa in due movimenti. “The Beginning” vedeva un intenso (ed inedito) Mustaine verseggiare in maniera suadente su un arpeggio grigio e malinconico per poi lasciare spazio ad uno dei migliori assoli di tutto l’album, mentre “The End” tornava a muoversi sui territori di “Crush ‘em” e Wanderlust”, con buoni risultati.
La versione rimasterizzata presenta una nuova copertina, né più né meno efficace dell’originale ma, forse, semplicemente più in linea, per toni e colori, con quelle storiche e contiene altresì tre bonus track (tre differenti mix di “Insomnia”, “Breadline” e “Crush ‘em”) che non modificano in alcun modo il giudizio inevitabilmente severo su di un album che, pur in presenza di quattro canzoni di buon livello, ha di fatto quasi ucciso una band storica del thrash metal in nome della conquista di una più ampia fetta di mercato che non è mai arrivata.
Stefano Burini
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Tracklist
01. Insomnia
02. Prince Of Darkness
03. Enter The Arena
04. Crush ‘em
05. Breadline
06. The Doctor Is Calling
07. I’ll Be There 08. Wanderlust
09. Ecstasy
10. Seven
11. Time: The Beginning
12. Time: The End
Line Up
Dave Mustaine: voce e chitarra
Marty Friedman: chitarra
David Ellefson: basso e backing vocals
Jimmy De Grasso: batteria