Recensione: Rites of Passage
Il suo nome potrà non essere tra i più chiacchierati, ma Coste Apetrea non è affatto l’ultimo arrivato. Il chitarrista, svedese nei natali, vanta oggi una carriera più che trentennale, iniziata nel lontano 1972 nelle file dei Samma Manlas Manna e proseguita nel tempo a fianco di altri nomi di spicco del panorama scandinavo e non – il chitarrista Jukka Tolonen, la popstar Ola Hakansson, la avant-rock band giapponese Ruins – nomi che tuttavia difficilmente risulteranno familiari al pubblico italiano.
Quanti si approcciassero per la prima volta all’axeman con questo Rites of Passage, dunque, avranno buone possibilità di restare sbigottiti (oltre che per la bruttezza della copertina) dalla sua abilità e, soprattutto, dal suo eclettismo. Scordatevi gli album disegnati per esaltare la sola figura del chitarrista: ogni passaggio, ogni sfumatura è curata in modo da valorizzare il sound complessivo, tanto che lo stesso Coste non disdegna in più d’una occasione di abbandonare le fidate sei corde per accostarsi alle pelli o ai tasti d’avorio. Il ventaglio di generi proposti è tra i più vari: uno stesso brano può nascere nel progressive, toccare il folk, accarezzare il funk, tuffarsi a capofitto nel rock, sfiorare il jazz e perdersi nella sinfonia. “Fusion”, nel senso proprio del termine.
Anche per questo risulta difficile congedare in poche battute canzoni che, per costruzione e cura delle parti, necessitano di una digestione lenta e rilassata. A maggior ragione se, come spesso accade, i bocconi più appetitosi si trovano sparpagliati all’interno di piatti eccezionalmente ricchi ed elaborati. E’ il caso del canovaccio rock di Daily Déjà-Vu, delle reminiscenze etniche nella title track o dei sussurri classici su Bohumils Bolero: tutti episodi prossimi ai dieci primi.
Ma anche uno spuntino come Conversation with Santiago, nella sua relativa brevità, sa rivelarsi una leccornia prelibata, da assaporare nei mutui scambi di impressioni tre fra pianoforte, violino e chitarra acustica. Il dialogo a tre estromette ancora una volta il cantato: le parti vocali, curate dallo stesso Coste, sono difatti limitate a pochi interventi disarticolati in una manciata di occasioni, senza affidarsi a testi di senso compiuto ma con un uso per così dire strumentale della voce, al modo dei Focus di Van Leer e Akkerman in Hocus Pocus.
Il pasto è davvero abbondante, i gusti ricercati, e il disco richiede di conseguenza una competenza superiore non solo da parte di chi suona, ma anche di chi ascolta. Coloro che si sentono legati a un approccio maggiormente tradizionale potranno restare un po’ spauriti di fronte a una schiera di brani tanto densi, quasi del tutto strumentali e il più delle volte di durata nettamente prossima o persino superiore ai dieci minuti. Soprattutto ai primi ascolti, un vago senso di stordimento potrà risultare un sintomo comune ai molti. La perseveranza, però, non lascierà a mani vuote, e chi saprà scavare fino al cuore di questo lavoro difficilmente si pentirà dello sforzo. Grande classe, ma non per tutti.
Tracklist:
1 – Rites Of Passage (8:34)
2 – Romana Lucia (11:00)
3 – Bagdad Bolgie (6:19)
4 – Daily Déjà vu (10 :01)
5 – Trickster (4 :50)
6 – Conversation With Santiago (3:12)
7 – Bohumils Bolero (9:23)