Recensione: Ritual of Homicide
Dopo sei anni di silenzio discografico tornano in pista Whore Of Bethlehem con il loro nuovo nonché terzo album in carriera: “Ritual of Homicide”.
Benché provenienti dal Texas, feconda terra natìa per lo slamming death metal, i Nostri preferiscono evitare di cadere del ribollente calderone ove sguazzano decine di act troppo simili fra loro. Instaurando, così, un rapporto molto stretto con il genere principale, interpretato, però, in maniera assai moderna.
Il combo di Austin, difatti, scatena un sound violentissimo, devastante. I cui stilemi, come detto, si adagiano su quelli che rappresentano lo step evolutivo più avanzato del metallo della morte. Quello che suona pulito, ordinato, soprattutto tagliente come la lama di un rasoio per un qualcosa che ha in sé il sapore ferroso del *-core. Qualche vaga reminiscenza slam c’è, ma si tratta soltanto di un richiamo territorialmente naturale e nulla più.
Da rilevare subito lo stupendo riffing elaborato da Ryan Sylvie e Phil King. Duro e compatto, ma allo stesso tempo assai variegato. Per intendersi, una prestazione ritmica ai livelli del technical death metal ma foriera della materializzazione di un titanico muro di suono. Con le stilettate della solista che trafiggono l’orrore narrato da temi, in cui non si contano omicidi e mutilazioni per una tremenda agonia che accompagna tutto il lavoro. Rendendo il lavoro stesso fonte di crudeltà testuale che sconquassa le budella per la sua innata brutalità.
Molto articolato il drumming, che regola uno stile in cui la componente cinetica non è la priorità. Certamente non mancano le sfuriate al calor bianco dei blast-beast (‘Monolith of Cremation’), ma è bene rimarcare che, in generale, il quintetto statunitense predilige spesso l’utilizzo dei mid e degli up-tempo (‘Enlightenment Through Pain’), con la doppia cassa a formare un poderoso tappeto sonoro. Quasi a voler appesantire il tutto per renderlo più pressante, più doloroso possibile tale da superare l’umana sopportazione.
In ogni caso si tratta di uno stile che obbiettivamente non presenta grandi margini di originalità. James VanDenBerg percorre le linee vocali senza pecche. Growling e harsh vocals si raggomitolano con grande accuratezza e consistenza. Tuttavia, se così si può dire restando nell’ambito della normalità. Un approccio al problema piuttosto scolastico, cioè. Il quale si ramifica all’interno del disco rendendo la sua foggia musicale simile a tante altre. La band adempie appieno al proprio dovere, insomma, ma senza mai uscire dal seminato. Non si discute, invece, la coerenza di detto stile, giacché esso è irreprensibilmente legato al gruppo statunitense. Per rendere meglio l’idea, il disegno del timbro a fuoco che attribuisce “Ritual of Homicide” ai Ritual of Homicide è ben chiaro, nitido, nonché formato al 100%.
Anche le canzoni seguono questa tendenza al mero soddisfacimento della questione tecnica e dell’approccio convenzionale alla questione artistica, soffrendo di un songwriting abbastanza prevedibile. I brani, cioè, suonano Whore Of Bethlehem, senza che si colgano con facilità, come si dovrebbe, le differenze fra ciascun episodio.
I Whore Of Bethlehem sono davvero bravi nell’esecuzione strumentale, insomma, ma non altrettanto nella fase compositiva. Per ciò, pur presentando qualche momento interessante (‘Nails in Your Coffin’), “Ritual of Homicide” resta a disposizione solo e soltanto per i più feroci e imperterriti appassionati del genere.
Daniele “dani66” D’Adamo
https://youtu.be/uHiRmFdI6FA