Recensione: Rituals of the Sovereign Heart
Oggi ci troviamo a discutere del nuovo album degli statunitensi Arkheron Thodol, quartetto dedito ad un black metal atmosferico di buona fattura. L’espressione musicale in esame non è di matrice burzumiana, ovvero composta da motivi ripetuti in maniera ossessiva per l’intera durata del brano e su ritmi prevalentemente medio-lenti; qui ci troviamo su territori strutturalmente più vari, quasi progressive sotto certi aspetti. L’analisi di questo lavoro non è semplice: il brano conclusivo non è davvero nulla di che, un pezzo che entra ed esce senza infamia e senza lode, mentre il secondo pezzo del lotto è forse quello che scricchiola di più. “Archonsbane in Bloom” parte molto lentamente, con qualche arpeggio e sintetizzatori sullo sfondo. Pian piano il brano si apre molto bene, con una dinamica ottima: si aggiungono gli strumenti uno dopo l’altro, entrando in scena in punta di piedi, senza turbare l’amalgama sonora in cui si inseriscono (anzi arricchendola), finché il tutto non esplode in un blast beat. Questo risulta davvero fuori posto ed inadeguato, quasi come fosse una sezione totalmente avulsa dal contesto, inserita lì per sviolinare magari l’ascoltatore black metal medio che senza blast beat si addormenterebbe secondo i timori dei nostri. Scelta stilistica quantomeno discutibile, anche perché effettuata senza convinzione: qualche secondo di frenesia e tutto torna alla calma precedente; svuotando quell’accelerazione di efficacia e significato. Il pezzo prosegue bene, ma questa è veramente una pecca formale e concettuale che non può passare inosservata. I due episodi più positivi del disco sono anche i più corposi: rispettivamente 16 e 17 minuti. L’opener ha un bel tiro, con ottime tastiere, e molto d’atmosfera. L’ingresso di un piano legato ad una chitarra ad accompagnare è fantastico, soprattutto perché poi i due ruoli si scambiano, con la chitarra che si riprende la scena; passaggio veramente molto ispirato. Verso la metà il brano rallenta progressivamente, per poi riaccelerare con altrettanta delicatezza. Bellissima la conclusione, che accompagna l’ascoltatore verso sonorità più calde, finché la magia non viene rotta dallo scream del cantante, che non è graffiante, ma basta ad interrompere l’atmosfera amena che si era creata per farla tornare su territori più gelidi: scelta azzeccata. “Animist Elixir” inizia dolcemente, si indurisce apparentemente con un blast beat accennato, per poi poggiarsi su una doppia pedalata che scandisce molto bene l’andamento del tempo. Rallenta ancora, per poi ricrescere pian piano a cavallo di una chitarra molto acuta, che anima molto il brano. Batteria puntuale ed ispirata, valida a livello compositivo, con esecuzioni semplici ma efficaci. Intorno al primo terzo del brano è da sottolineare l’intreccio fra chitarre armonizzate, basso e batteria che prima partecipa alla composizione e poi fa da tappeto acustico, accompagnando l’andamento delle chitarre, seguito da un bellissimo arpeggio. Questo rappresenta un momento di pausa non solo ritmica ed emotiva, ma anche da un punto di vista di “impegno” compositivo: momento calzante ed elegante, che alza ulteriormente la qualità compositiva del tutto. “Rituals of the Sovereign Heart” è un lavoro a due facce, moderatamente complesso e sicuramente originale ed azzeccato, ma anche con episodi anonimi ed errori grossolani. Ma quanto incidono queste pecche sulla qualità complessiva?
Non stiamo parlando di un capolavoro, né di un nuovo caposaldo del genere, ma sarebbe un peccato affossare le ottime idee del quartetto di Bozeman per peccati forse di gioventù artistica (parliamo comunque di un secondo album, non di un quarto o quinto). Queste incertezze con la loro presenza tolgono all’album l’etichetta di eccellenza, ma non possono essere abbastanza per negargli la qualità manifestata in quella che, all’atto pratico, è la maggior parte della durata dell’opera. Promossi quindi, con curiosità verso le prossime uscite.