Recensione: Riven
Dalle fredde, sterminate, pianeggianti lande finlandesi, ancora una volta, calano sul resto d’Europa le potenti melodie che inneggiano al death metal melodico artico e alle sue meravigliose armonie.
Stavolta è il turno degli Shadecrown, alle prese con il loro secondo full-length, “Riven”. Nati nel 2012, quindi relativamente giovani, essi mostrano invece un piglio, una consistenza, una professionalità che è già ai massimi livelli tecnico-artistici, cui sono assestate molte delle formazioni che fanno parte del roster della connazionale Inverse Records.
Si potrebbe obiettare, subito, che i Nostri siano dei cloni degli Insomnium, ma così non è. Anzi, senza girare attorno al nocciolo della questione, si può affermare con certezza che “Riven” sia un album eccezionale. Ben diverso da altre opere, dotato di gran personalità e maturità sì da poterlo considerare un lavoro a sé, tipico non solo del finnish melodic death metal ma soprattutto di loro, degli Shadecrown.
La potenza in gioco è elevata, sfavilla di scintille che, come stelle, punteggiano un cielo plumbeo e grigio come se, al contrario, si trattasse di una volta gelida e tersa, accarezzata dall’aurora boreale. Le chitarre macinano non a caso riff assassini, resi dolci da stupendi arabeschi il cui lievito fecondante è il tipico sentimento di mestizia che alberga nei cuori di quel Popolo.
Sì, perché l’incredibile mood del disco colpisce come una secchiata d’acqua ghiacciata sul viso: un umore abissalmente malinconico, che si radica profondamente nel cuore, facendolo lacrimare amaro per un futuro senza speranza, per un Mondo che verrà senza la benevolenza della Natura. Allora, li brani di “Riven”, una dietro l’altra, messe in fila come soldatini, rappresentano tavole che, come quelle della Via Crucis, raccontano di un Uomo che si rivolta contro chi l’ha creato, Gea, per distruggerla, per devastarla, per ferirla a morte.
Coscienti di ciò, gli Shadecrown inanellano una song più bella dell’altra dando al tutto la forma di un cerchio, tenuto assieme dalla grande energia che si sprigiona dalla strumentazione elettrica ma anche dai pregevoli tappeti tessuti dalle tastiere del mastermind Saku Tammelin. Energia pura, cristallina, che fa vibrare il corpo, tremare gli oggetti, squassare la debole resistenza della membrana timpanica.
Tuttavia, ciascun brano è antitetico in sé, nel senso che accanto alla menzionata possanza, vivono melodie che innescano moti vorticosi nell’anima. La qualità delle armonie è al top. Praticamente insuperabile. Oltre, c’è la stucchevolezza, la mielosità; ma non è certamente questo il caso.
Scendono le lacrime, è l’ora del capolavoro: ‘Incomplete’. Canzone straordinaria, baciata con forza da Euterpe, esprime melodie celestiali, che si perdono lontane nel tempo e nello spazio, viaggiando per eoni verso l’Immensità. Il growling Jari Hokka s’intreccia con la musica, regalando un contrasto fra i migliori mai ascoltati, almeno dallo scriba. Gli eterei break centrali innescano sensazioni morbide e dolci, d’impulso per il chorus, davvero di grandissimo livello artistico. Per volare, per sognare, per scivolare piano piano nelle braccia della morte.
Il livello del songwriting stupisce per una grandezza che non ammette cedimenti. Tammelin compone le tracce con una costanza incrollabile, tesa a proiettare in alto, sempre più in alto, la strada ammantata da oro gelato che, da ‘Not Until the End’, conduce a ‘Traces’. Nessun calo di tensione, nessun riempitivo, niente di niente: “Riven” si srotola su di un pavimento d’acciaio, liscio e resistente, che non permette alla musica di scendere di intensità ma, al contrario, solo di salire verso vette di armoniosità assoluta, totale. Senza farsi intimidire, in questo, da niente e da nessuno, come dimostra la violenta, brutale, ‘Hate Reflected’, la quale, come in un trasognante paesaggio, mostra al suo interno tinte delicate, pastello, che cozzano con il vivido colore della furia degli elementi.
Via, si vola via, in un leggero stato di trance, con gli occhi socchiusi, acceso dalle magiche volute della suite del platter, ‘Divided’, che ripete il segno caratteristico del sestetto di Viitasaari: tanta, tanta potenza; tanta, tanta melodia; tanta, tanta ariosità. La chitarra solista è come se si commuovesse dalle sue stesse note. L’incedere è monumentale. Fuoco, terra, aria: c’è tutto, in “Riven”, basta saperlo afferrare con le propaggini della mente per tenerlo ben stretto a sé.
Insomma, “Riven” è una clamorosa, inaspettata sorpresa da parte di una band sconosciuta ai più che, invece, merita la giusta visibilità in virtù di un talento apparentemente senza fine, in grado di dar vita a canzoni leggendarie.
Il triste freddo dei Mille Laghi e il melanconico caldo del cuore. Così è, nei fieri abitanti di quelle terre sperdute.
Daniele “dani66” D’Adamo