Recensione: Riven
Un po’ una rarità, questi Mortem Atra, dovuta al fatto che provengono dalla calda e assolata Cipro per propugnare il loro verbo fatto principalmente di death e di doom…. metal, ovviamente. La band è nata nel 2011 ma solo adesso giunge all’ambito traguardo della pubblicazione del proprio debut-album, “Riven”. La qual cosa si spiega, anche e soprattutto, con la scomparsa, nel 2016, di Tasos Bratsos. Il quale era un batterista di buon talento che rappresentava una decisa forza trainante per i suoi compagni, come si può apprezzare dal suo drumming che segna indelebilmente le tracce del disco, uscito quindi postumo sul mercato internazionale.
Si è già detto di death e di doom. Più precisamente death melodico e doom arioso, sui quali è stato spruzzato un pizzico di gothic. Una miscela che, tradotta in un solo termine, almeno a parere di chi scrive, si scrive come symphonic death metal. Certo, le intrusioni dei generi predetti non sono da sottovalutare, tuttavia ciò che esce fuori è un qualcosa di ben definito, saldato alla struttura di base del sound mentre variano gli schemi formali delle canzoni.
Takis Antoniou affronta le linee di competenza con un growling roco, soffuso, che tradisce una certa sofferenza, una certa malinconia. Emozione antitetica alla solarità del Paese natio ma, si sa, ciò che vive nel cuore non è detto che sia intonato a ciò che percepiscono gli occhi e gli altri sensi. Al suo rabbioso urlo i Nostri accostano la cristallina e intonata voce di Christina Papadjiakou, pure tastierista, per un effetto certamente non originale ma piacevole, che rimanda alla leggenda del gothic metal della metà degli anni ’90. Bravi anche i due chitarristi, Marios Gavrielides e Valantis Pavlou, capaci di imbastire un riffing granitico, roccioso, duro, inspessito dalla tecnica del palm-muting. Altrettanto in grado di accompagnare la musica sia con delicati arpeggi, sia con dorati ricami dalla rilevante componente armonica, rinvenibile anche nei soli, pure essi dotati di buon gusto e precisione di esecuzione. Molto bene la sezione ritmica, con il ridetto Bratsos a pestare con sulle pelli con un saporito groove, un gran senso del feeling e una forte personalità nonché varigata mobilità. Ineccepibile il basso di Aris Ioannou, il cui compito è quello di riempire gli spazi lasciati vuoti dagli altri.
Da tutto quanto sopra ne deriva uno stile sostanzialmente privo di grandi novità e trovate rivoluzionarie ma piuttosto atipico per via di orchestrazioni che portano sul platter echi del folclore arabo. Anche in questo caso, come per la voce, un contrasto forte se non un vero e proprio ossimoro musicale fra la freddezza tagliente del metal e il tradizionale calore della musica etnica. In alcuni momenti, come per esempio in ‘Evil Rise’ e nella successiva ‘Hymn of Doom’, il sound si fa particolarmente cattivo, sostenuto da liriche improntate sullo stesso indirizzo concettuale. Così facendo, è un po’ come se i Mortem Atra si chiudessero in se stessi, ipnotizzati da una sorta di negatività contraddistinta da un certo grado di visionarietà.
Come spesso accade in questi casi, ove, cioè, non c’è un immediato riscontro istintivo al primo passaggio dei brani, da intendersi come reazione emotiva a qualcosa di travolgente, le tracce di “Riven” si susseguono fra loro senza particolari sussulti. Un songwriting un po’ anonimo, insomma, sufficiente per disegnare una foggia musicale bel definita nei suoi contorni e nei suoi spazi interni ma incapace di regalare qualche pezzo di memorabile virtù. Con un’eccezione: ‘Mirror’, orecchiabile episodio baciato dal duetto Antoniou/Papadjiakou nel quale scorre vivo il magico fluido invisibile che innalza improvvisamente il livello artistico di un’opera d’arte in genere.
Benché davvero eccellente, la song, da sola, non basta a rendere memorabile “Riven”, che si adagia su una comoda sufficienza o poco più.
Daniele “dani66” D’Adamo