Recensione: Road Rage

Di Marco Tripodi - 4 Agosto 2017 - 8:00
Road Rage
Band: Quiet Riot
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2017
Nazione:
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63

Molto si potrebbe dire per introdurre questo album, il 12° full-lenght ufficiale dei Quiet Riot, band che si è conquistata un posto nella Hall of Fame del Rock ‘n’ Roll per l’anthem eterno “Metal Health” (aka “Bang Your Head“), croce e delizia dei losangelini, visto che quell’enorme, immenso successo li ha inchiodati ad una canzone che, come un cannibale, ha quasi fagocitato e distrutto tutto il resto di buono (e meno buono) pubblicato in carriera. Il Destino ha messo il jolly in tasca ai Quiet Riot, ma poi si è ampiamente ripreso il prestito con gli interessi. Successivamente alla dolorosa morte di Kevin DuBrow (2007) ci sono voluti ben otto anni prima che arrivasse sugli scaffali un nuovo lavoro a firma Quiet Riot (“Number 10“, con l’ex Love/Hate Jizzy Pearl al microfono, un album che alternava materiale inedito e non), quindi altri tre per “Road Rage” (all’insegna, come da tradizione, di un artwork orrido).

Il disco è stato tribolato ancor prima di uscire; Seann Nicols – già sostituto di Pearl – dura appena una manciata di mesi in seno alla band, il tempo di incidere le tracce vocali in studio ed esibirsi in cinque concerti di numero, e viene archiviato. Al suo posto arriva James Durbin, finalista del talent America Idol, e la data di pubblicazione slitta sorprendentemente a causa della volontà di ri-registrare il materiale con il nuovo frontman (o sarebbe meglio dire frontboy). Quindi un paio di streaming in anteprima (“Freak Flag” e “Wasted“) per far assaporare ai fans cosa sta per piombare nei loro stereo e nei loro lettori mp3. Infine, ad una decina di giorni dalla release date ufficiale, il videoclip di “Can’t Get Enough“….che in tutta onestà non mi ha regalato adrenalina ed entusiasmo per il ritorno di una band da me amatissima. Una canzone (appena) caruccia, tutta in rosa shocking, che definisce abbastanza fedelmente i Quiet Riot 2017.

Che i Quiet Riot non fossero più quelli di “Run For Cover“, “Condition Critical” e “The Wild And The Young” era assodato e forse anche giusto; i molti album a seguire, più o meno apprezzabili, avevano segnato un parziale smarcamento da quel sound primordiale, istintivo e “grossier” (detto in senso buono). Anche laddove le tastiere rimbombavano platealmente (vedi “QR III“) la carica sguaiata e volgarotta (sempre detto in senso positivo) non aveva conosciuto ridimensionamenti, ma poi gli anni ’80 si sono trasformati nei ’90 e poi ancora peggio, è arrivato un millennio nuovo di zecca. Oggi i Quiet Riot sembrano seguire il sentiero tracciato dai Queen, senza però essere i Queen. Il repertorio della band californiana (perlomeno quello che l’ha fatta amare dalle folle) non è fatto di “Bohemian Rhapsody” e “Inneundo” bensì di mazzate basiche in 4/4 col ritornello urlato a squarciagola. Non si sarà trattato di una scelta glamour, del tentativo di tendere una mano al mondo della tv e dei social media, sarà stata certamente una scelta sincera e ponderata da parte di Banali e compagni, ma è inevitabile che un fan dei Quiet Riot, uno che magari li ha seguiti fin dalla golden age, finisca col chiedersi se in giro, nelle cantine, sui palchi dei club di L.A., nelle mille altre band con cui i Quiet Riot sono andati in tour, non esistesse un cantante meno Dawson’s Creek di Durbin.

Senza fare processi alle intenzioni e limitandoci all’oggetto del contendere, di “Road Rage” si può dire che non si tratta di un album atroce o ributtante, ma neppure di un capitolo che fa risplendere di luce maestosa il pesantissimo monicker in copertina. Sarà sicuramente un errore giudicare “Road Rage” partendo dal passato glorioso (ma lontano 30 anni) della band; tuttavia anche limitandosi all’ora e adesso, e facendo finta di chiudere gli occhi per non sapere chi siano gli effettivi autori di questi brani, non è che la situazione migliori particolarmente, anzi. Semmai è proprio il blasone che spinge ad ascoltare ripetutamente l’album, concedendogli caparbiamente ulteriori chance. Un manipolo di carneadi esordienti con questo repertorio verrebbe accolto con incoraggiamenti e qualche pacca sulla spalla per l’inizio dignitoso e promettente, ma certo non sarebbe salutato come la nuova esplosiva “big thing” dell’hard rock americano. “Road Rage” può risultare gradevole, soprattutto per chi è a digiuno delle imprese testosteroniche della band, ma non può gratificare al 100% chi ha sempre portato quel nome impresso a fuoco sui ventricoli miocardici. Un fazzoletto di canzoni apprezzabili anche se il graffio non arriva mai veramente in profondità.

Personalmente non mi sento di sposare la scelta di Durbin; anche tralasciando il carico di pubblicità che l’ex concorrente di American Idol porta in dote (negli States i talent sono una religione di massa, assai più che in Italia, e gli studi televisivi che li ospitano sono grossi come arene), Durbin si muove prevalentemente su toni alti ed acuti, e mi chiedo come possa custodire il repertorio anni ’80 dei Quiet Riot. L’impressione è un po’ quella di un Marco Mengoni leggermente più crudo, con una bandana sulla fronte e un giubbotto di jeans pieno di toppe stracciate di Exciter ed Anvil, trapiantato magari nei Vanadium o nella Strana Officina. E se al dunque il curry non ti piace, è difficile che tu possa trovare appetitoso un intero pollo al curry. Non saranno né “Road Rage” né Durbin a riportare in vita la Quiet Riot mania. Purtroppo.

Marco Tripodi

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