Recensione: Rock or Bust
Irriverenza… ma con divertimento ed ironia. Questo è il credo che sta alla base di una delle più grandi rock band di tutti i tempi, gli Ac/Dc. E alla faccia dei colleghi e delle mille avversità patite (su tutte l’uscita di Malcom, affetto da demenza senile), i nostri canguri continuano ad intrattenere tutto il mondo grazie alla loro rodata musica, che, se non aggiunge nulla di nuovo (come da copione), sa sempre guadagnarsi la fiducia del novellino. L’ennesimo abbordaggio di questa ciurma di scavezzacolli prende il nome “fantasioso” di “Rock or Bust”. Un titolo che celebra l’immortalità di un rock fatto di sudore ed energia contagiosa, che non viene meno nella sincopata impudenza della title track, shakerata dagli assoli dell’eterno scolaretto Angus.
Tanta elettricità è stipata e pompata in “Play Ball” che fa il suo mestiere fornendoci genuine scosse senza evidenti cali di “tensione”. Certo il voltaggio che scaturiva da album quali “High Voltage” e “Powerage” si è ridotto ma non è certo dagli Ac/Dc che pretendiamo concetti “nobili” quali innovazione ed originalità, che starebbero come un collare troppo stretto addosso a questi animali da palcoscenico. E così la forza di “Rock or Bust” sta nell’immaginarci di nuovo il duck walk scala classifiche di Angus mentre rotoliamo sul blues suadente di “Rock The Blues Away”, un ottimo mix di melodia spensierata e indiavolato groove.
Non è, infatti, un mistero che il ritmo sfacciato degli Ac/Dc ha sempre quella verve, quel “Shoot To Thrill”, che riesce a smuoverci, ad agitare gambe e braccia, per farci tornare più giovani e con meno grattacapi sulla testa. Forse questo è l’unico modo per spiegare come, anche in tempi difficili per il rock, “Hard Times” rimane un elisir di lunga (abitudinaria) vita, distillato usando solo una manciata di riff saettanti. Il tutto senza pericolose sperimentazioni e “discutibili cambi di stile”…
Dopotutto, sappiamo bene che è una band monolingue, che evita di parlare altri idiomi che non siano quelli del fottuto rock, come se la musica avesse preso una strada circolare e sempre a senso unico. Modus operandi condivisibile o meno, è indubbio che la dimora del rock, puro e duro, habitat naturale di questi australiani, è una tappa obbligata, attraverso la quale ci siamo passati un po’ tutti, deathsters e blacksters compresi.
Non meravigliatevi, dunque, se per gli Ac/Dc, come per un enorme animale preistorico, il resto importa poco e il doppio colpo “Dogs Of War”/“Got Some Rock & Roll Thunder” prosegue caparbiamente sulla strada dissestata dell’hard’n’blues più spavaldo, dove la produzione ingigantisce il comparto sonoro donandogli l’assordante statura che è degna per questo combo rumoroso.
Inutile dire che, giunti a metà tracklist, la proposta procede sui binari, accentuando i classici tratti distintivi dei Nostri, come il basso rimbalzante della sincera “Baptism By Fire” o il midtempo elargito da “Rock The House”, che scivola via sulle note del plettraggio di Angus, lontano da osare eccessive prodezze chitarristiche.
D’altronde, gli Ac/Dc hanno da tempo immemore fornicato e gozzovigliato con armonie essenziali ed epidermiche ed il vizio di autocitazione è un po’ lo stile di vita dei Nostri. Concetto perfettamente sublimato da “Miss Adventure”, con i suoi compulsivi backings che fanno il verso ad una certa “Thunderstruck”, infischiandosene di una effettiva carenza di idee.
Come atteso, anche le tematiche non tradiscono canoni consolidati: una band di tal fatta ovviamente non trascura l’appuntamento hot a là “Whola Lotta Rosie”, qui agghindato per l’occasione nelle vesti succinte di “Sweet Candy”, dove i Nostri gigioneggiano a gran voce le dolcezze della vita, mai tradendo il loro umorismo dissacrante che li accompagna dai tempi di “Big Balls”.
E la spensieratezza goliardica ha sempre fatto da dea bendata al gruppo: ecco perché anche quando Brian e soci fingono di essere più “seri e contenuti” in “Emission Control”, lo fanno a modo loro con le movenze istrioniche di Johnson o con il basso di Williams, senza preoccuparsi del risultato (piatto e routinario). Insomma, ancora emissioni sonore nell’ordinario per il nostro rozzo, caldissimo rock’n’roll da palco sudicio e fumoso.
C’è altro da aggiungere? No, anche perché lo stesso Angus ammise candidamente l’omogeneità dei propri lavori, lasciando qualsiasi pretesa d’innovazione ai “virtuosi” della musica dura. Risparmiamoci, dunque, eventuali saccenterie da critico artistico, che con “Rock or Bust” sarebbero utili quanto i sensi di colpa a Mefisto. L’unica cosa che possiamo dire è che il valore di un album del genere risiede semplicemente nell’offrire un’occasione in più agli attempati di far festa e ai più giovani di godersi del vetusto e sano rock’n’roll, trascinati da un complesso la cui onestà è sempre stata fuor di dubbio.
Eric Nicodemo