Recensione: Rock Savage
Senza dubbio un biglietto da visita non troppo accattivante quello offerto dall’artwork di copertina scelto per il debutto di questa band britannica, side project “classicista”, portato in scena da Neil Ogden e Paul Hume, attuali membri degli storici Demon.
Logo anonimo, colori spenti, taglio grafico che pare il banalissimo esercizio di un designer alle prime armi, tutt’al più, il lavoro risalente alla cover di un vecchio gioco per PC degli anni ottanta, di quelli per Amiga e Commodore 64.
Non proprio un’immagine fascinosa e d’impatto. Nella sostanza tuttavia, un indizio indicativo delle voglie “retrò” del gruppo inglese, seppure fuorviante qualora relazionato all’effettiva qualità della musica contenuta, ben lungi dall’essere definita fondamentale, eppure dotata di più d’un motivo utile nel rendersi interessante alle orecchie degli appassionati di suoni heavy rock.
La ricerca della coppia di artisti, infatti, si stoppa esattamente nel cuore degli eighties, crogiuolo infinito di sogni e speranze musicali che tanti adepti chiama a se ancora oggi, rinverdendosi con costante frequenza in un numero sempre maggiore di nuove uscite.
La modernità è per lo più bandita ed il desiderio di apparire in qualche modo contemporanei, abbandonato completamente a se stesso: quello che interessa a Ogden e Hume – raggiunti dall’ottimo guitar player Howie G dei Persian Risk e dal bassista Josh Williams degli Headrush – è suonare con fedeltà un tipo di musica che appaia emanazione diretta dei dorati anni ottanta, infarcendo di anthem “vecchia scuola” un manifesto musicale dal sapore classico ed antico.
Chi lo chiama heavy metal, chi hard rock. In realtà il genere abbracciato dai Lawless è un riuscito ed arrembante ibrido tra melodie guizzanti ed orecchiabili, mescolate alla durezza di chitarre quadrate e ritmiche solide, in una sorta di collage stilistico dal tipico richiamo class metal, quello, per intenderci, che ha saputo fare le fortune dei Dokken, ma che ha chiaro e radicato domicilio anche nell’opera di Saxon, Dio e Scorpions.
Una buona partenza, condita dalla realizzazione di una manciata di brani potenti e cadenzati, ottimi per un salutare headbanging (di quelli, in verità, non troppo selvaggi) e per un ascolto a volumi sostenuti. Il piacere maggiore è offerto proprio dalla decisa ed insistente determinazione della chitarra di Howie G, massima protagonista – insieme alla voce di Paul Hume, nemmeno a farlo apposta, intonata in stile Dio – di una serie di canzoni dirette, prive di eccessive sottigliezze, schiette e quadrate. Che scorrono senza troppi intoppi e si lasciano apprezzare al primissimo ascolto, centrando il bersaglio dell’hookline orecchiabile dopo un unico e semplice passaggio.
In un complesso di livello tutto sommato omogeneo, i momenti migliori paiono in ogni modo essere quelli concentrati nelle zone centrali dell’album.
“Misery”, “SOS”, “Rock n’Roll City” e “Step In” ottengono, in effetti, le posizioni di maggior rilievo nella lista del gradimento, miscelando in modo decisamente riuscito, affascinanti atmosfere vintage con armonie gagliarde e vigorose, a volte dai risvolti heavy rock, in altri frangenti nemmeno troppo lontane dal glam rock losangelino di vetusta memoria.
Un piacevole menù a base di ingredienti conosciuti e sempre apprezzati insomma, che non manca mai di suscitare – anche nell’ennesima e reiterata rielaborazione – buone sensazioni ed assoluto piacere d’ascolto.
Un paio di riempitivi dal taglio tedioso e dalle trame un po’ sfilacciate (“Scream” e “F.O.A.D.”) non inficiano un risultato che lascia ottime impressioni ed inevitabilmente finisce per piacere parecchio ai tanti amanti dei suoni classici e tradizionali.
Non fosse altro che per due inni borchiati ed ingenuamente intensi come “Heay Metal Heaven” e “Metal Time”. Ovvero, tutto ciò per cui siamo ancora qui – dopo tanti anni – a scrivere e leggere di quella magnifica creatura che prende il nome di heavy metal…
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