Recensione: Rock The Rebel / Metal The Devil
La proposta più originale dell’anno in corso, probabilmente, ce la portano questi Volbeat, danesi e sinora praticamente sconosciuti al grande pubblico: guidati dalla mente e dalla voce di Michael Poulsen, leader in passato dei leggermente più noti Dominus, i nostri si cimentano in una miscela che dire esplosiva è poco.
Elvis Thrash Metal: così li ho sentiti definire e, se inizialmente la cosa mi sembrava paradossale e a livello delle storpiature pubblicitarie a cui le label ci hanno abituati nel corso degli anni, devo dare ora ragione a chi sinteticamente usava quelle 3 paroline per etichettare la loro musica. Oh, naturalmente non ci si ferma lì: ma è innegabile che i Volbeat uniscano fondamentalmente riff thrash metal (e qualche volta sfiorino il death melodico) ad una voce declamatoria che fa assolutamente rock’n’roll anni ’50/’60, tra un Elvis Presley e un Johnny Cash, di cui ostentano orgogliosamente le t-shirt.
E a ben vedere una simile evoluzione del loro sound, giunti al secondo album, era da prevedere: esattamente 10 anni fa i Dominus rilasciavano l’album Vol.Beat, che abbandonava il death gotico delle origini abbracciando in pieno gli influssi r’n’r, quella specie di metal caratterizzato a forte groove che ancora oggi fornisce la base musicale a Rock The Rebel/Metal The Devil. Ed è da qui che si riparte per analizzare un album fresco, divertente, magari di non elevatissimo spessore ma che riesce a farsi ascoltare a ripetizione, specie in situazioni festaiole: un album che si apre con l’energica The Human Instrument, che col riff nostalgico d’apertura e il groove di cui è capace ci trasporta immediatamente nell’atmosfera del disco. Vocals che giocano perennemente con l’impostazione artefatta, che prendono l’ascoltatore per mano e lo conducono al melodico ritornello mentre, senza accorgersene, inizia a tenere il tempo con testa, piede e qualsiasi cosa abbia per le mani.
Momenti migliori del disco, canzoni da incorniciare per la loro capacità di suonare accattivanti, dannatamente coinvolgenti e originali sono una The Garden’s Tale, con la roca voce dell’ospite Johan Olsen dei punk Magtens Korridorer a scandire le frasi in madrelingua ed alternarsi con l’impostatissima timbrica di Poulsen; una River Queen, romantica e sognante anche se cadenzata e dotata del miglior riff metal del disco; una rockeggiante A Moment Forever, con la voce del singer sugli scudi; ma soprattutto il gioiello dell’album, quella Sad Man’s Tongue che si pone come vero e proprio tributo a Johnny Cash dall’inizio alla fine, e che sono sicuro risulti esplosiva dal vivo.
Il limite di questo disco, se proprio vogliamo trovarglielo, è in una certa monotonia di fondo della base strumentale, costruita su riff davvero molto semplici e diretti, che rischiano però di lasciare troppa responsabilità alla voce di Poulsen, costretto a mantenere alta l’attenzione dell’ascoltatore quasi da solo. Un difettuccio che non danneggia però troppo la fruizione dell’album, che resta comunque ben più che godibile a lungo.
Una vera e propria sorpresa, e viste le potenzialità dimostrate non dubito che, anche al di fuori di quella Danimarca dove sono già delle star, i Volbeat diventino la cosiddetta next big thing del metal meno chiuso in schemi rigidi.
Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli
Tracklist:
1. The Human Instrument 04:29
2. Mr. & Mrs. Ness 03:47
3. The Garden’s Tale 04:51
4. Devil or the Blue Cat’s Song 03:15
5. Sad Man’s Tongue 03:05
6. River Queen 03:41
7. Radio Girl 03:45
8. A Moment Forever 03:42
9. Soulweeper #2 04:02
10. You Or Them 04:11
11. Boa (JDM) 03:35