Recensione: Room 101
I Karmamoi sono una di quelle band che, dopo un fisiologico periodo di assestamento durante i primissimi lavori, ha trovato una propria dimensione sonora e compositiva tale da renderla autorevole nella sua cornice stilistica ed assolutamente riconoscibile. I capitolini, anche grazie ad alcune scelte volte a dare un respiro internazionale al loro progetto musicale, hanno sin dagli esordi riscosso interesse all’estero più che in Italia (come spesso accade per la scena prog). Nati nel 2008 da un’idea di Daniele Giovannini condivisa con la cantante Serena Ciacci, i chitarristi Fabio Tempesta e Alex Massari, e il bassista Alessandro Cefalì, danno alla luce il primo lavoro omonimo nel 2011. A questo hanno fatto seguito Odd Trip (2013), Silence Between Sounds (2016) e The Day Is Done (2018) in un percorso che ha visto avvicendamenti in line-up, ma soprattutto la scelta di avvalersi di collaborazioni per il completamento della formazione (anche per la voce) e la costruzione del proprio assetto sonoro. Non è un caso che molti di questi collaboratori vengano proprio dagli ambienti musicali prog rock fonte di ispirazione per la band (Porcupine Tree, tanto per fare un nome) e sintomo della volontà di dare progressivamente una precisa fisionomia alla propria musica.
Avevamo lasciato i nostri con il sognante ed atmosferico The Day Is Done, quale sarà la direzione intrapresa con questo Room 101? Sin dalle prime battute è piuttosto chiaro come sia stato conservato un certo sound decadente e crepuscolare, impregnato con un mood claustrofobico, anche con qualche iniezione in più di elettronica, che accompagna tutto il disco. Certamente questa ricerca sonora è figlia della volontà della band di ispirarsi, non solo nei temi, al romanzo “1984” di George Orwell e alla sua incredibilmente attuale distopia.
L’album si apre con “Memory Holes” che, con i suoi oltre 9 minuti, fotografa molto bene la proposta Karmamoi targata 2021: un songwriting articolato, a tratti imprevedibile, verso territori ritmici e tappeti armonici molto diversi, in un viaggio tra il malinconico e il cibernetico. Il crescendo conclusivo dell’opener lascia il posto alla successiva “Drop by Drop”, dove i sussurri dell’ottima Sara Rinaldi ben inducono l’ascoltatore alla triste introspezione della mente umana che si fa poi respiro spaziale negli assoli emotivi di chitarra. Una traccia che nel suo sviluppo toccante ed etereo avrebbe trovato degno posto in The Day Is Done… È già piuttosto chiara la scelta fatta di tenere le linee vocali sempre piuttosto dimesse e soffuse, non solo nei tanti passaggi intimi, ma anche quando, nella loro naturale evoluzione, le finestre dei brani si aprono in maniera liberatoria e consentono l’ingresso di aria fresca a pura, dissolvendo le nubi per un attimo. Forse, è un peccato.
“Dark City” si apre anch’essa con un’atmosfera contemplativa e morbida, fino a quando le sole percussioni non si ingigantiscono in un drumming sofisticato e travolgente supportato dal basso di Cefalì, cupo e pesante. A seguire il brano più lungo del platter: “Zealous Man”. Un piano commovente introduce e si alterna con una serie di diversi passaggi sonori, prima calmi, poi magniloquenti e sognanti, e viceversa. Infine, chiusura ipnotica con la sezione ritmica sugli scudi. Torna a rilassare gli animi il piano nell’intro di “Newspeak”, un brano strumentale tanto immersivo, atmosferico e struggente da far soprassedere a una sua certa prolissità.
La title-track presenta uno sviluppo ritmico piuttosto elaborato, un incedere nervoso, psichedelico e sperimentale: probabilmente il pezzo che più di altri merita ascolti multipli per essere pienamente assimilato. Chiude degnamente il lavoro “The New World”, confermando un certo “indurimento” della proposta musicale nelle ultime tracce: le chitarre si fanno più affilate, i ritmi più serrati, le atmosfere più energiche (in alcuni passaggi tornano alla mente i Threshold). Tirando le somme, questo Room 101 potrà deludere i fan più “floydiani” della band (legati a The Day Is Done) ma darà soddisfazione a quelli più sperimentali.
Un album che, al netto di alcune ordinarietà e di una sonorità un po’ monocorde, sa comunque di conferma: quella della qualità tecnica e compositiva della band romana e d’una identità forte e chiara in un solco già tracciato da illustri mostri sacri.