Recensione: Room V

Di Riccardo Angelini - 25 Luglio 2005 - 0:00
Room V
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Anno: 2005
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85

“There’s a time when your doubts won’t matter
There’s a time all your fears can wait
All the times in the year for laughter
Oh Christmas day”

Sette anni sono passati dal capolavoro di metal progressivo chiamato Tyranny, che con queste ultime parole lasciava aperta la porta per un possibile seguito. A lungo i fan degli Shadow Gallery avevano sperato in un secondo capitolo, in una degna conclusione per quella storia incompiuta. Oggi quel seguito è una realtà. Il suo nome è Room V – e, va sottolineato, non un banale e probabilmente ruffiano “Tyranny parte II”. Un dettaglio apparentemente insignificante che si rivela in realtà una tangibile prova della volontà da parte dei cinque statunitensie di non adagiarsi sugli allori del passato, ma di cercare piuttosto una strada in cui “continuità” non sia sinonimo di “scopiazzatura”. Già questo potrebbe segnare un punto in loro favore, ma è ancora presto per i giudizi.
Così, preso possesso dopo una lunga attesa di questo piccolo cd, finalmente lo inseriamo nel lettore con impazienza e un po’ di nervosismo. Impazienza, perché un’attesa di sette anni si fa sentire, e perché fino a oggi gli Shadow Gallery non hanno mai sbagliato un colpo. Nervosismo, per l’intimo timore che la band non riesca a replicare i fasti del passato: certe vette non si scalano due volte. Come suona, alla fin fine, questo Room V?

Diciamolo pure senza esitazione: suona bene, benissimo. Gli Shadow Gallery sono ancora quelli di un tempo: stessa classe, stessa tecnica, stesse atmosfere. Anzi, a confrontare tra loro i due capitoli c’è di che sorprendersi, nel riconoscerli tanto omogenei da apparire davvero le due metà di un’unica grande opera già pensata fin dall’origine. L’intro Manhunt pare quasi divorare gli ultimi sette anni e trascinarci indietro nel tempo per ricominciare esattamente là dove Tyranny ci aveva lasciati. E così, al risuonare delle prime note di Confort Me, ecco affiorare alla mente i ricordi delle soavi armonie di Christmas Day. Possibile replicarle oggi? La risposta la state ascoltando proprio ora. Un duetto irresistibile, in cui la tanto apprezzata Laura Jeager torna ad affiancare un Mike Baker sempre più passionale ed evocativo. Melodie semplicemente incantevoli, ulteriormente impreziosite da quei tocchi di classe che permettono alla band statunitense di distinguersi nel panorama prog mondiale. Un esempio? La pausa prima dell’assolo ai 4:35: tre secondi di silenzio, né troppi né troppo pochi, per enfatizzare in modo magistrale la travolgente entrata in scena di Allman (la cui prova sarà uno dei punti di forza dell’album). Il confronto con il precedente di Spoken Words è di quelli impegnativi, ma mi voglio sbilanciare, e dichiarare vincitore ai punti proprio lo sfidante.
Dopo l’incipit zuccherino, ci pensa il riff roccioso di Andromeda Strain a dare la sveglia. Chitarre rudi e senza paura si appoggiano su un chorus disteso e arioso, pur venato da una tensione sottile e quasi impalpabile, in perfetto stile Shadow Gallery. Un chiaroscuro decisamente azzeccato, che prende efficacemente in prestito potenza e sinfonie dal power più maturo e complesso.
Nuovo rallentamento, nuova hit. Lasciatevi avvolgere dalle melodie sognanti di Vow, poiché presto dovrete distaccarvi una volta per tutte da questa pace. Mentre le chitarre dipingono paesaggi mattutini e idilliaci, Baker conduce il brano con la consueta forza espressiva, riuscendo a sorprendere una volta in più per carisma e intensità. Ne esce uno dei pezzi migliori del disco, una ballad gentile e maestosa che senza dubbio saprà conquistarsi un posto d’eccezione nella memoria dei fan.
Ma non pensiate che il meglio sia già passato! Ciò che vi attende ora è un trittico di sommo livello artistico. Birth of a Daughter: la tensione, l’inquietudine, la trepidante attesa…  e poi dolore ed esultanza che si mescolano, in un caleidoscopio di tinte quasi indistinguibili. Il culmine della gioia… e il baratro dello sconforto. Death of a Mother: l’angoscia, la disperazione, la strenua lotta contro un destino crudele e inesorabile; un animo spezzato, lacerato. Lamentia: una struggente ode di dolore, che getta un’ombra di fosca nostalgia su melodie già note. Delle due voci che fino allora si erano accompagnate, è rimasta solo quella di Mike, a piangere la sua solitudine, dolore per un vuoto profondo e incolmabile. Tutto dura appena sei minuti, ma la densità di emozioni è da mozzare il fiato in gola.

Finisce qui la terza parte della saga iniziata con Stiletto in the Sand, e una volta tanto a una divisione teorica dell’album in due frangenti corrisponde un reale cambio di stile a livello di sound. I brani che seguono segnano infatti una svolta verso sonorità più marcatamente progressive, talvolta anche a scapito dell’immediatezza che aveva contraddistinto la prima metà dell’album, pur confermandosi a livelli decisamente buoni.
Passato l’intermezzo Seven Seas, il tempo torna a scorrere, quasi come se gli Shadow Gallery avessero voluto posticipare la loro evoluzione musicale al capitolo finale. Con la sola eccezione di Dark, sorta di intro scaraventata in medias res, i brani diventano infatti mediamente più articolati e più lunghi (tra i sette e i nove minuti), sicuramente meno uniformi al loro interno e dunque più impegnativi da seguire. Si moltiplicano i riferimenti al prog settantiano, non solo nelle canzoni più lente ma perfino in una traccia decisamente metal-oriented come The Archer of Ben Salem. Qui le tastiere tornano alla ribalta accanto a un bel riff nervoso e irregolare, mentre le linee vocali si incattiviscono sporcandosi e inasprendosi in modo inusitato. Largo spazio è lasciato alle digressioni strumentali, in cui oltre al solito Allman si distingue per varietà e precisione una frenetica sessione ritmica forte della compassata intesa tra basso e batteria.
Si è parlato di una minore immediatezza di questa quarta parte, ma è proprio nel penultimo brano, Room V, che il combo della Pennsylvania incide il ritornello senza dubbio più riuscito dell’album, e probabilmente uno tra i migliori di sempre della loro carriera. Una sorta di inno enfatico e trionfale che dopo sole due ripetizioni ignora le lamentose suppliche dei padiglioni auricolari dell’ascoltatore, che ne vorrebbe ancora, per lasciar spazio a un lungo e spettacolare excursus strumentale, in cui ogni membro della band dà il meglio prima dell’appassionato epilogo: Rain, degno commiato dopo una coppia di album che gli amanti del genere ricorderanno a lungo.

Ma non è ancora finita. La limited edition offre infatti un intero cd-extra, che conferisce al concetto di “bonus-track” un significato completamente nuovo. Ce n’è per tutti i gusti: dalle evoluzioni alla batteria di Joe Nevolo, alla versione acustica di Rain, passando per le melodie di sapore country di She Wants to Go Home e per il breve ma accattivante demo Memories, con tastiere e voce sugli scudi. E se ancora non fosse abbastanza, ecco uno stupefacente medley acustico di quasi venticinque minuti (!) eloquentemente intitolato Floydian Memories. Più che un tributo una vera e propria dichiarazione d’amore per quelle sonorità psichedeliche che forse gli Shadow Gallery non ostentano nei loro full-lenght, ma che senza dubbio hanno rappresentato un passaggio fondamentale della formazione musicale loro e di innumerevoli altre band.
Queste cinque tracce vanno a costituire insieme una sezione di extra davvero imponente, nettamente in contrasto con la non poco diffusa politica che prevede l’aggiunta di complementi pressoché inutili, buoni solo per giustificare l’ennesima versione limitata. C’è da augurarsi davvero che qualcun altro prenda esempio da cotanto modello.

Tra l’opera principale e i bonus, siamo di fronte a poco meno di due ore di grande musica, godibile anche da chi non avesse conoscenza dell’illustre predecessore. Chissà, forse finalmente i ragazzi della Pennsylvania riusciranno oggi a ottenere quel successo popolare che meritano da anni, e che tuttavia non si può dire abbiano ancora conseguito. Certo che se alla qualità dei prodotti corrispondesse un effettivo tornaconto di fama, il loro nome sarebbe oggi accostato a quelle di band ben più blasonate. Un vero peccato. Ma noi, pubblico fedele, accontentiamoci di godere dei frutti del loro genio, e limitiamoci ad augurare ai progster statunitensi un futuro ancor più luminoso.
Prima di chiudere, c’è spazio ancora per un ultima considerazione riguardante l’album. Gli Shadow Gallery hanno sempre avuto una grande dote, quella di offrire melodie straordinariamente immediate e appaganti, e che pure avvolgono poco a poco, lentamente, senza mai stancare ma anzi avvincendo l’orecchio sempre più, fino a conquistarlo completamente. Orecchiabilità e longevità: un binomio assai raro, soprattutto nel moderno oceano di dischi ispirati a sonorità che talvolta esitano a lungo prima di aprirsi, o (assai più spesso) che donano in fretta qualche momento di soddisfazione, per poi venire a noia altrettanto rapidamente. Eppure, un binomio che gli Shadow Gallery hanno saputo fare proprio nel tempo, e questo Room V sta qui a dimostrarcelo. Ascoltatelo con la massima attenzione, la merita tutta.

Tracklist:
1. Manhunt (2:09)
2. Confort Me (6:51)
3. The Andromeda Strain (6:46)
4. Vow (8:27)
5. Birth of a Doughter (2:40)
6. Death of a Mother (2:15)
7. Lamentia (1:05)
8. Seven Seas (3:37)
9. Dark (1:03)
10. Torn (8:23)
11. The Archer of Ben Salem (7:28)
12. Encrypted (8:01)
13. Room V (7:44)
14. Rain (8:59)

Bonus Disc:
1. Joe’s Spotlight (3:06)
2. She Wants to Go Home (2:40)
3. Memories (1:59) [Demo]
4. Rain (5:52) [Acoustic Version]
5. Floydian Memories (24:39)

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