Recensione: Roots & Shoots – Volume Two

Di Fabio Vellata - 28 Agosto 2024 - 8:00

Arriva forse un po’ troppo presto questo secondo capitolo del progetto Roots & Shoots del prode Jim Peterik.
A distanza di pochi mesi – ne contiamo precisamente sette – il volume due di questa raccolta dedicata alle radici primigenie di uno dei padrini dell’AOR made in USA appare come un’uscita un po’ stanca, forzata e priva di mordente. Quasi obbligata. L’idea, nemmeno troppo nascosta, è quella di un disco sorretto da materiale originariamente non incluso nella prima edizione della collection.
Non vorremmo chiamarli “scarti”. Sarebbe, in effetti, ingeneroso. Ma magari qualcosa come “B-sides” forse sì.
Fatta eccezione per una ridotta manciata, quelle ascoltate sono canzoni di secondo piano, non proprio di primissimo livello. Nobilitiamole chiamandole roba da collezionisti, via.

Pur apprezzando da sempre la bravura compositiva di Peterik, è un po’ difficile non accorgersi come siano davvero troppi questa volta i cliché presenti nei brani. Melodie che vanno a pescare dal melodic rock a stelle e strisce, comprendendo sprazzi di musica root, qualche spunto rockabilly un tantino pittoresco e momenti di cantautorato americano.
Nulla di profondamente sbagliato. Solo, davvero troppo “strasentito” ed a tratti trascurabile.

C’è ovviamente qualche finezza da cogliere. L’iniziale “American Dreamer” è un bel up-tempo frizzante dal sapore Bostoniano, doppiata dalla successiva “Your Own Hero”, in cui saltano immediatamente all’orecchio molte assonanze con i fondamentali Survivor. Non male anche la costruzione melodica di “Rise Again”, brano che da il meglio di se nel buon ritornello.
L’eleganza di “Forever Endeavor”, interpretata assieme al fidatissimo Toby Hitchcock è un altro highlight, cui aggiungeremmo infine “Hit of Freedom”, pezzo tra westcoast e pop che si adatta perfettamente ad un contesto radiofonico e vacanziero.
Buona l’idea di coinvolgere una voce fresca come quella di Sophia Seth, artista decisamente estranea al tradizionale AOR. Una trovata che dona nel finale una goccia di spensieratezza estiva al disco.

Il resto, pur mantenendo inalterate le qualità di charme e stilosità tipiche di Peterik, non reca grosse sorprese. Per lo più ballatone da film hollywoodiano o pezzi molto di mestiere. “Road to Forever”, “Until“, “Stronger Than You Know“, “All that’s Mine to Give”: stramelodiche e zuccherosissime, vanno con il pilota automatico. Inevitabile qualche fugace sbadiglio.
We Can Fly“ invece potrebbe benissimo essere il jingle di qualche spot per la TV americana: davvero kitsch lo stacchetto in stile country-rodeo piazzato in chiusura.

Sensazione che non ci abbandona nemmeno al decimo ascolto: non si tratta di materiale scritto per vincere.
Probabilmente queste erano idee di “riserva” che Jim Peterik ha comunque ritenuto di dover rifinire in modo da poterle consegnare alla dignità dell’archivio storico del suo immenso talento.
Si ascoltano. Ma il nostro amico Jim ha fatto decisamente di meglio…

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