Recensione: Roth Brock project
Roth Brock Project: due nomi rispettabilissimi dell’universo melodic rock, uniti nell’ennesimo side project “made in Frontiers”.
Il risultato? Un classico, gradevolissimo ed orecchiabile disco AOR, che non promette originalità, non dispensa trovate rivoluzionarie, ma con grande mestiere, stoffa ed innata classe, garantisce un’oretta di musica scorrevole e di livello più che dignitoso.
Del resto, le capacità della coppia di artisti coinvolti sono tali dal porre gli esiti al riparo da ogni possibile dubbio o contestazione di sorta
Valido polistrumentista già in azione con Starship, Giant e Winger, John Roth è, infatti, partner più che adatto nell’assecondare l’ugola dorata di un fuoriclasse del microfono come Terry Brock, singer statunitense coinvolto in un numero imprecisato di progetti che i più (come il sottoscritto), ricorderanno principalmente e più che volentieri per i due leggendari album prodotti negli intramontabili eighties con i grandi Strangeways.
La radice di tutto quanto ascoltato in questo estemporaneo esordio sta tutta lì. Negli anni ottanta.
E non potrebbe essere altrimenti.
Brani semplici e veloci, decisamente fruibili, tutto sommato freschi anche se lontanissimi dall’essere estranei alla tradizione o in qualche modo diversi da una consuetudine che ha riempito, negli anni, pagine e pagine di pentagrammi e riviste musicali.
Dunque i paragoni ed i termini di riferimento si sprecano e vanno a braccetto con tanti nomi familiari alle orecchie degli appassionati: Bad English, Steelhouse Lane, Damn Yankees, House of Lords, Giant, Winger, per qualche piccolo frammento pure Strangeways. La rassegna è quella che si colloca in una sorta di amarcord che scivola dal passato glorioso per insinuarsi nel presente, arricchendo la storia di un genere “infinito” come l’Aor con un nuovo capitolo che, ovvio, non potrà forse definirsi un classico, ne approssimarsi a tale definizione, ma riesce tuttavia nel difficile compito di tenere salda la rotta, rivelandosi onorevole e credibile epigono di una scuola melodica che negli anni passati ha sfornato vere e proprie gemme preziose d’inestimabile valore.
Voce ancora sicura, suoni avvolgenti e qualche bel ritornello. Una miscela che sforna brani talora deliziosi come “What’s It to Ya” (che tanto rimembra i Giant di “Time To Burn”), “If That’s What It Takes” e “I Don’t Know Why” (ed ecco gli echi degli Strangeways). Oppure un paio di gioielli di classe pura quali “My City” e la seguente “Never Givin’ Up”, pezzo che ha avuto modo di ricordarci un po’ gli Storm del primo, indimenticabile, album.
Uno per uno, i brani di cui questo nuovo side project è composto, ricordano da vicino illustri band dal fascino antico, quelle che hanno agitato i sogni di chi l’AOR ha imparato ad amarlo proprio ascoltandone le massime espressioni esistenti nei dorati eighties a stelle e strisce.
Una sorta di disco-tributo insomma, che pur vivendo di luce riflessa non scade tuttavia nello stucchevole eccesso di revival, ne muore avvitandosi in soluzioni troppo vintage e demodé.
Lo stile è sempre attualissimo e la verve di John Roth e Terry Brock un fondamento incrollabile.
In fondo, i due fanno esattamente quello che gli riesce meglio, mettendo a frutto anni ed anni di esperienza e di passione per il genere.
Già di per se una garanzia di buon successo.
Qualcuno se ne dimenticherà dopo pochi passaggi. Altri, magari un pizzico più nostalgici, vorranno approfondire con più attenzione, affezionandosi alle undici tracce di cui “Roth Brock Project” è composto.
In qualunque modo la si voglia “prendere” o da qualsiasi prospettiva la si guardi, questa prima opera non potrà comunque apparire meno che piacevolissima o priva di un qualche spessore.
Un decoroso, gradito ed apprezzabile riverbero di uno scintillante passato.