Recensione: Ruins
Le oscure coste del Mar Baltico hanno in sé una cupa malinconia e rappresentano un luogo in cui molte storie tristi sono giunte a una inevitabile fine.
Dopo l’ottimo debut-album “Horror Vacui” (2016), tornano in pista i Marianas Rest con “Ruins” e, naturalmente, con le loro storie frammiste di pensieri e salsedine.
Sostanzialmente immutato lo stile, basato su un death metal melodico che, però, in questo caso, presenta più di uno sconfinamento nel doom. Una circostanza che non muta le caratteristiche di base della formazione finlandese ma che ne approfondisce i singulti dell’anima, che sgorgano spontanei quando di fronte si vedono paesaggi sconfinati ma deserti, privi di colore e vita.
“Ruins” è composto da otto song, tuttavia di lunga durata. Una scommessa, poiché così facendo si rischia di sfilacciare la gomena che traccia la giusta direzione. Ciò non accade, in “Ruins” stesso, poiché i Nostri sono dotati di un buon talento compositivo, da cui discende un sound dimesso, triste, malinconico. Un umore cupo e tetro, che a tratti urla di genuina disperazione (‘The Spiral’). Grazie, soprattutto, all’ugola di Jaakko Mäntymaa, assai bravo nel dar vita a una foggia canora che coinvolge screaming, growling e hars vocals. Nessuno dei modi elencati prende il sopravvento sugli altri, anzi si fondono in linee vocali perfette per il genere di musica trattato.
Eccellente il lavoro delle due chitarre di Harri Sunila e Nico Mänttäri, fautrici di continue divagazioni solistiche dall’anima dolce e armonica, dotate di classe sopraffina, atte a immergere l’ascoltatore nelle nebbie di un mare sterminato quanto desertico. Come detto, la leggera virata verso il doom ha determinato un’altrettanta sterzata verso ritmi più blandi, ideali per attivare le melanconiche visioni generate dai vari brani del platter. In questo, appare ineccepibile il lavoro svolto da Niko Lindman (basso) e Nico Heininen (batteria). Così come risultano imprescindibili le trame di tastiera di Aapo Koivisto, forse il vero ingrediente in grado di amalgamare in un’unica voce straziante (‘Hole in Nothing’) tutto quello che esce dagli strumenti, voce compresa, del resto del combo di Kotka.
Così, si materializza – come se fosse un’entità a sé stante – il disagio derivante da una vita vissuta in ambienti spogli, vacui, spenti. Il sole non c’è mai, a irrorare di colori il cielo plumbeo che sovrasta tutto e tutti, circostanza ben esemplificata dalla lenta, rallentata ‘The Defiant’; brano che rimanda un po’ a certo gothic metal in voga nella metà degli anni novanta e, anche, ad alcune sonorità tipiche degli Amorphis. Esempi che non sminuiscono la bontà artistica dell’act scandinavo ma che possono essere utili per dare un’idea su quello che contiene il disco.
Se da un lato “Ruins” si può considerare come un’ideale lente attraverso cui osservare la solitudine dell’essere umano, dall’altro manifesta una prevedibilità un po’ fastidiosa (‘Unsinkable’). Il leit motiv che marchia a fuoco le canzoni dell’LP è ben inquadrato in un’entità assolutamente definita in ogni dettaglio che, però, si ripete praticamente, senza variare, in ogni traccia. Togliendo, con questo, l’effetto-sorpresa. Il passaggio fra i vari brani non muta un atteggiamento volutamente costante (almeno, a parere dello scriba), cosicché – per esempio – fra ‘Shadows’ e ‘Restitution’ non ci sono grandi elementi di novità, di diversità.
Se da un lato ciò consente ai Marianas Rest di estrinsecare totalmente il loro eccellente sound, il loro stile centrato; dall’altro “Ruins” scorre via veloce senza intaccare a fondo l’anima, come, invece, si sarebbe potuto e dovuto fare.
Un piccolo passo indietro, rispetto a “Horror Vacui” che, sinceramente, non ci si aspettava.
Daniele “dani66” D’Adamo