Recensione: Ruins
Terrificante attacco sonoro. Questo è, per dirla in poche parole, “Ruins”, quinto full-length in carriera dei Burial Hordes.
La band ellenica, difatti, non va tanto per il sottile e propina un death metal che fa della potenza e della furia scardinatrice i principali dettami di riconoscibilità. Death metal che, in alcuni frangenti, rallenta sino a sfiorare le oscure propaggini del doom (‘Wandering Stream of Wind’). Si tratta però di un’operazione volta a inspessire un mood oscuro, tenebroso, quasi horror.
Sin dall’opener-track, ‘In the Midst of a Vast Solitude’, l’aggressione alla giugulare è totale, annichilente, devastante. La voce roca e riarsa di D.T. produce un growling senza compromessi, regalando al sound un non so che di ammuffito, di cavernoso, di irrespirabile aria malsana. Elemento che emerge con più forza quando, come più su specificato, il ritmo cala repentinamente per procedere lentamente nei meandri di enormi grotte in cui strisciano le note prodotte dal terzetto di Atene.
T.K. e D.D. allineano fedelmente le loro chitarre a questo stile che sa di stantio, fautrici di riff possenti, distorti in modo da assumere il sapore di decomposizione che permea l’intero lavoro. Riff non particolarmente complessi ma dannatamente efficaci in relazione al contesto, che ricordano un po’ il black metal per la loro sequenza senza interruzioni di sorta. Un bestiale muro di suono che troneggia cupo in qualche gigantesco anfratto del sottosuolo sul quale, a mò di graffiti, si possono scorgere gli orridi ghirigori degli apporti solisti.
I Nostri se la cavano piuttosto bene anche negli stentorei mid-tempo, circostanza ben esemplificata in ‘Perish’, brano dall’incedere potente e ricco di personalità. Che dimostra la capacità di abbassare il numero di BPM senza perdere alcunché in un sound maturo, adulto, significativo di coloro che lo elaborano.
In questa branchia priva di luce del death si rivoltano numerosi act, attualmente, per cui ritagliarsi un proprio spazio assume i connotati di un’operazione per nulla semplice. Nel caso in esame non si può parlare certamente di grande originalità, però si ha a che far con qualcosa di coerente con se stesso, di riconoscibile, di visibile. Un marchio di fabbrica simile a tanti altri ma fortemente legato a chi suona sì da divenirne la carta di identità. Un aspetto certamente non secondario, che rende onore al combo greco di avere saputo creare un qualcosa di suo, simile ma al contempo diverso dal resto del Mondo.
Eugene Ryabchenko, il batterista session man, seppure estraneo alle dinamiche primigenie del trio, si amalgama alla perfezione allo stile del medesimo, scatenando tutta la gamma ritmica tipica del genere. Risultando praticamente ineccepibile sia in occasione delle repentine decelerazioni, sia quando si deve entrare nel terrificante universo dei blast-beats (‘Infinite Sea of Nothingness’). Un ottimo elemento, insomma, che pare suonare da sempre nella band.
Anche le canzoni seguono il trend del sound, nel senso che a un primo ascolto appaiono tutte uguali o quasi. Approfondendo gli ascolti, questo tipo di percezione diminuisce ma senza mai arrivare a una chiara distinzione fra una traccia e l’altra. A parere di chi scrive ciò non si deve interpretare come un grave difetto. Il tipo di death di cui si discute va assorbito, difatti, nella sua complessità e non nella sua singolarità. Come un’unica, singola, enorme mazzata che si abbatte sulla testa.
Con che, chiudendo il discorso, si svela la vera natura di “Ruins”. Quella, cioè, di un’opera che va presa nel suo complesso, nella sua globalità, senza intestardirsi sul contenuto di ogni singola song. Un macigno che schiaccia la gabbia toracica, per sintetizzare al massimo, invece che una gragnuola di sassate in piena faccia.
Daniele “dani66” D’Adamo