Recensione: Ruins of Mankind

Di Damiano Fiamin - 27 Dicembre 2011 - 0:00
Ruins of Mankind
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Anno: 2011
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68

La Germania è sempre stata un territorio molto fertile per quanto riguarda il metal; sono decine i gruppi che, negli ultimi decenni, sono nati, cresciuti e sono riusciti a varcare i confini teutonici per giungere nelle nostre case. I Diabolus Dust sono una band giovane che, probabilmente spera di fare altrettanto. Nel 2006, due ragazzi, che sarebbero diventati il chitarrista e il batterista del quartetto teutonico, diedero il via a questo progetto, con l’intenzione di suonare musica metal attingendo a piene mani da differenti stili musicali. Ci troviamo nel variopinto campo delle sonorità avanguardiste, dunque? Non proprio, i tedeschi propongono, piuttosto, un thrash non ortodosso, caratterizzato da frequenti cambi di ritmo e timbro vocale, ma comunque, basato sulla tradizionale formazione a quattro, con voce, chitarra, basso e batteria. Per rafforzarsi, questi ragazzi hanno intrapreso un’intensa attività live, arrivando ad affiancare grandi nomi come Paul Di’Anno, Sepultura e Testament. Fin qui, la storia, vediamo come se la sono cavata durante il passaggio delle loro idee dall’Iperuranio alla concretizzazione.

E’ la title track ad aprire il disco, chitarre graffianti e basso pulsante cominciano subito a tempestare le casse, dando vita a un pezzo di thrash metal pompante e solido, non particolarmente originale, ma sicuramente in grado di avviare degnamente le danze. Ruins Of Mankind cresce violento prima di subire una breve contrazione ritmica, piccolo trabocchetto per instradare l’ascoltatore verso un finale martellante, che ben si appaia con l’apertura del brano seguente, Fading To Grey; leggermente più lento, risulta ossessivamente incalzante, scorre tranquillo, ma non apporta grande lustro alle doti musicali dei membri del quartetto che, fino al solo, rimangono impelagati in unico riff fin troppo scontato. Blood Red Sky comincia a esplorare territori interessanti, mischiando le dure sonorità delle tracce precedenti con dei ritmi più epici, in un’anacronistica commistione che, bisogna ammettere, risulta piuttosto intrigante. E’ un altro incipit massiccio quello che introduce Judgement Day, nuovo brano dove la batteria e il basso picchiano senza pietà, in un crogiuolo di potenza ferale, un po’ ripetitiva, ma esaltante.
Creatures è un pezzo cupo e malevolo, dal suono più viscoso e opprimente, ottimo esempio di come questi ragazzi siano in grado di alternare agevolmente momenti di metal più tradizionale ad altri meno ovvi, sperimentando ritmi differenti e soluzioni stilistiche interessanti. Anche la traccia successiva, Slave, torna a pigiare decisa sull’acceleratore, alternando riff ai confini con il death a momenti lanciatissimi e frenetici. Nuovo cambio di registro per Out Of Time, un brano che all’inizio ricorda più i Moonspell che gli Anthrax, con bassi pieni e corposi che stentano a farsi da parte per lasciare spazio a un corpo centrale più ruvido e compatto. Nonostante il titolo porti altro alla mente, Defender è un brano di thrash piuttosto scolastico, non è male ma lascia dietro di sé la sensazione di essere un semplice riempitivo, vista la mancanza di stimoli interessanti al suo interno. Il discorso non muta troppo con In Vain che, però, ha un ritornello accattivante in grado di risollevare in parte le sorti di un brano comunque troppo lungo. Ci avviamo alla conclusione del disco quando irrompe nelle nostre orecchie The Mirror, tosto e deciso, riporta verso l’alto le quotazioni del gruppo grazie a fraseggi particolari e potenza esplosiva. A chiudere l’album, la curiosa Never Surrender, un brano decisamente riconducibile all’heavy metal vecchia scuola, un’iniezione di anni ottanta che non ha alcun nesso con quanto ascoltato fino a questo momento, ma risulta indubbiamente un’ottima prestazione, divertente e coinvolgente quanto basta.

Così termina Ruins of Mankind; la sensazione agrodolce che rimane in bocca è perfettamente giustificata: il quartetto tedesco sembra aver lasciato un processo creativo incompiuto. Sebbene la maggior parte dei brani sia decisamente ben fatta e risulti alquanto accattivante, non è possibile ignorare quei tre, quattro pezzi che, misteriosamente, sembrano buttati lì tanto per fare minutaggio. I Diabolus Dust sono tecnicamente validi e hanno delle buone idee da sviluppare; forse, hanno esitato all’ultimo momento e non hanno avuto il coraggio di avviarsi in una direzione precisa, tanto per tenersi più strade aperte. Il risultato è discreto, ma sarebbe potuto essere certamente migliore, viste le premesse. Mi auguro che il prossimo parto avvenga sotto la luce di una maggiore decisione. Nel frattempo, consiglio questo disco a tutti quelli che vogliono sentire un buon thrash e non temono che venga ibridato da altre correnti metallare; se siete degli oltranzisti cresciuti a pane e Slayer, lasciate stare.

Damiano “kewlar” Fiamin

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Tracce:

  1. Ruins Of Mankind
  2. Fading To Grey
  3. Blood Red Sky
  4. Judgement Day
  5. Creatures
  6. Slave
  7. Out Of Time
  8. Defender
  9. In Vain
  10. The Mirror
  11. Never Surrender

Formazione:
Jürgen Dachl – Voce
Anton H. Lini – Chitarra
Roland Zehrer – Basso
Stefan Fesser – Batteria

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