Recensione: Rulebreaker

Di Marco Giono - 2 Febbraio 2016 - 10:55
Rulebreaker
Band: Primal Fear
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2016
Nazione:
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65

 

Da quante angolazioni è possibile ritrarre un’aquila? Probabilmente infinite. Per il momento in ogni caso siamo solo a undici. I Primal Fear infatti danno alla luce l’undicesima aquila, l’undicesimo disco intitolato stavolta “Rulebreaker”. Il ritratto della copertina si tinge di colori scuri e il pennuto ci fissa frontalmente iracondo. La combinazione di titolo e immagini non può far altro che indurci a preconcetti musicali ben precisi: in tal senso i precedenti del gruppo ammettono pochi margini, si tratta di heavy metal che affonda la sua essenza nella storia e nel classicismo. In ogni caso i Primal Fear a questo giro rinnovano la formazione sostituendo il batterista Aquiles Priester con Francesco Jovino degli U.D.O. e ufficializzando Tom Naumann alla chitarra dopo alcuni anni di tour assieme al gruppo. Gli altri? I soliti: la voce palestrata di Ralph Scheepers, il basso dei Sinner, Mat Sinner, il tastierista e chitarrista Magnus Karlsson e per chiudere Alex Beyrodt alla chitarra. Musicisti esperti e talentuosi. Nuovamente le premesse per far bene ci sono. Non ci resta che guardare negli occhi l’aquila e se si tratti di smascherare il suo eventuale bluff. 

Lascio alzare in volo la prima traccia intitolata “Angels of Mercy”…Non bluffano. Il brano si muove in riff tirati e vocalizzi acuti alla Judas. La batteria quadrata e veloce ci accompagna verso il ritornello che funziona in quanto antichissimo, poi assoli e vocioni a danzare possenti sulle melodie. L’oscillare ritmato involontario della mia testa è timido. L’aquila mi fa la linguaccia e profetizza che la fine è vicina. Infatti segue “The End is Near” che ci domanda retorica “Do you Wanna Die?…”. Ci penso su. Magari aspetto la fine del brano. Questa seconda traccia trova un buono spunto sia nella voce tagliente che nei riff sempre tirati. La seguente “Bullet & Tears” materializza lo spettro dei Judas Priest nel riff che rimanda (semi-plagio) a quello di “Breaking the Law”. Se le premesse non sono delle migliori, il brano poi trova una melodia di ampio respiro nel ritornello che riesce comunque a farsi piacere.  Più o meno a metà della track-list ci piazzano “In Metal We Trust” che è inno da birre alzate al cielo ed in quel contesto sicuramente funziona. Funziona anche da sobri sia chiaro, solo che è roba da concertone. In ogni caso un brano più che buono che mette in mostra ancora una volta le doti acrobatiche delle chitarre sempre graffianti e in grado di disegnare assoli sempre piacevoli. Altra nota di merito è il lavoro della batteria che martella fin dal primo istante mantenendo poi un ritmo sostenuto per donare al brano una sua personalià.

Se cerchiamo un po’ di varietà la troviamo nel successivo brano intitolato “We Walk Without Fear” che è una semi-ballad dai toni scuri in cui si insinua una melodia ad alta presa emotiva. In realtà il brano si dipana tra passaggi drammatici e sfuriate elettriche. Malgrado abbia un minutaggio davvero elevato (undici minuti rispetto alla media più contenuta del disco) riesce a trascinare di forza l’ascoltatore grazie anche ad una melodia davvero riuscita. A mio modo di vedere il migliore brano del disco. La traccia sette intitolata “At the War with the World” è un ritorno al classico stile dei Primal Fear fatto di riff taglienti, vocalizzi affilati e…un set di coltelli…uhm, no, melodie trascinanti che qui si ricordano quelle degli Accept con la pinna (aka “Fast as a Shark”). Rimane un buon brano che dal vivo dovrebbe funzionare piuttosto bene. Le due traccie successive intitolate rispettivamente “The Devil in Me” e “Costant Heart” si specchiano incuranti lungo vie già percorse da Accept e Judas Priest. In particolare la seconda vince facile il premio Judas (Priest) in Me. Ok, Funzionano, ma per quanto? 

Ci vogliamo riposare da volteggi remoti e nulla di meglio di una ballad vintage che mette in scena un drammone ad alta tensione emotiva; ricorda gli Skid Row di prima maniera. Ben fatta, ma per quanto? Per sempre. Volendo essere meno drammatici e scherzosi, rimane un brano piacevole e nulla di più. L’aquila irritata se ne è andata da un pò, ma in realtà manca solo l’ultimo brano intitolato “Raving Mad” che è un brano con la voce di Scheepers in carta vetrata a chiamare a raccolta l’eventuale avventore per un flash mob folle e metallico

Sono davvero riusciti anche stavolta a ritrarre l’ennesima aquila? Pare di si. I Primal Fear trovano nel loro ultimo disco “Rulebreaker” una maggiore diversità rispetto al precedente “The Delivering Black” del 2014 e con qualche spunto di maggiore qualità. In particolare mi hanno colpito tre seguenti tre tracce: “We Walk Without Fear”, “The End is Near” e “In Metal We Trust”. Gli altri brani si muovono in continuo dialogo più o meno diretto con Accept, Judas Priest e Saxon. La produzione rimane di buon livello riuscendo a mettere in risalto le chitarre abrasive e la voce sempre carica di energia. 

Tuttavia dovendo collocare questo nuovo album all’interno del più vasto scenario metal è difficile immaginarlo primeggiare o anche solo lasciare un ricordo di sé. Se da un lato vi sono buone canzoni, le stesse finisco però per divenire un eco ridondante del tempo passato. A mio modo di vedere l’ultimo album dei Primal Fear intitolato “Rulebreaker” ben si adatta ad amanti di sonorità classiche senza troppe pretenziosità in termini di originalità e personalizzazione, per il resto della vasta e variegata comunità metal potrebbe risultare un buon de-ja vu, ma nulla più. Un ascolto e via o poco più. 

 

MARCO GIONO

 

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