Recensione: Runaway (Reissue)

Di Eric Nicodemo - 14 Gennaio 2014 - 18:03
Runaway (Reissue)
Band: Dakota
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2012
Nazione:
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88

La musica può essere giustamente considerata la trasposizione fedele dei sentimenti alla stregua di pittura e scrittura, un linguaggio potente ed immaginifico, capace di trasmettere messaggi ed emozioni uniche all’ascoltatore.  

Questo breve incipit rispecchia la visione di Jerry G. Hludzik e Bill Kelly, fondatori dei Dakota, esempio di prima grandezza nel panorama AOR degli anni ottanta.   
I Nostri iniziarono la carriera come membri dei The Buoys, conosciuti per il singolo “Timothy”.
Dopo un’esperienza infruttuosa con il monicker Jerry-Kelly, nel 1980 vide la luce l’album di debutto dei Dakota, che aprì le porte al rock melodico del nuovo decennio. In questo periodo, “Runaway” prese forma presso il Lion Share Studio di Los Angels, grazie al produttore Danny Seraphine e all’ingegnere del suono Humberto Gatica (con un contributo del maestro Steve “Toto” Porcaro).

“Runaway” inizia con i paesaggi suggestivi evocati della title track: si delinea un’immagine surreale grazie all’intro estraniante dei synts. La sei corde trascura i virtuosismi per concentrarsi su una sintesi efficace e avvolgente: accordi robusti si sollevano con un rombo e, successivamente, si attutiscono, rituffandosi nel tappeto ritmico per creare un andamento teso e movimentato. Hludzik non eccede ma usa con parsimonia la chitarra in modo da esaltare l’elevazione del coro, cogliendo inaspettato l’audiance con un sublime volo.
“Tonight Could Last Forever” risveglia il lato più solare della chitarra, la quale gioca con la linea melodica, instaurando una forte sinergia tra vibrati, tasti d’avorio e una spirale di voci nel chorus. Brilla di luce propria l’intarsio delle tastiere, che scivola delicatamente nel fraseggio centrale.
La perfetta intesa tra tasti e sei corde è il fulcro di “Runaway”, un sodalizio ispirato dal quale nascono canzoni emozionanti e poetiche come Heroes, una danza che ha inizio sulle note del piano. La ballad si sviluppa dando sfogo, prima al sofferto prechorus e poi al ritornello ricco di speranza. La poetica di “Heroes” è magnificamente decorata e rifinita dal contributo del pianoforte, che vive in simbiosi con il guitarwork.       

Un Aor più orientato al beat artificiale (ma mai freddo e fine a stesso) introduce “When The Rebel Comes Home”, una trappola irresistibile con il suo refrain avvolgente, una hit che è una sincera dichiarazione d’amore al rock solare della West Coast. Questa canzone esemplifica il lato più hi-tech dell’album dato che si avverte distintamente il suono della batteria elettronica, uno strumento in sintonia con le mode del tempo, come lo stesso Hludzik ammise in un’intervista (d’altronde gli stessi rockers Legs Diamond si servirono dell’electronic drum nel loro “Out On Bail” del 1983).   
Sempre schietto e veloce l’uso dell’inseparabile duo sei corde-keyboards in “Love Won’t Last”, una canzone in grado di mediare le velleità funk con il solismo chitarristico più ispirato.
Ed ecco che, al centro dell’album, si delineano suoni dolci e penetranti, come un’immagine in lontananza che si avvicina mentre percorre una landa desolata: subito siamo svegliati da un vigoroso pattern e l’inno di “Into The Night” risuona immediato ed espressivo nel freddo vuoto del buio. La bellezza di “Into The Night” risiede nella forza di coinvolgere l’ascoltatore grazie alle armonie del ritornello finale, declamato come una vivida promessa.          
Assieme a “Into The Night”, “Angry Men” racchiude l’aspetto più disincantato dei Dakota: un crescendo che esplode in un’armonia intensa e disperata, il tutto intrecciato al guitar work che si evolve da brevi accenni, rochi e potenti, al verticalismo dei vibrati struggenti.    

Il lato più triste e lacerato dell’AOR ritorna in “If Only I’d Known It”: un pianoforte ci trasporta in un’atmosfera languida, attraversata dai rimorsi dell’amante in pena, un sentimento che risplende nel chorus alto ed accorato e nei passaggi iterati e ossessivi del guitar work.    
L’età inesperta dell’adolescenza viene risvegliata dal caldo sax di “Over And Over”: una linea melodica si insinua tra tasti e brevi riff per poi librarsi nei vocals. Ad un tratto, il post chorus è così travolgente da creare un contrasto che trasmette tutta l’irrequietezza della gioventù.

La recente riedizione della Rock Candy aggiunge altra carne al fuoco al già sostanzioso platter del disco originale, regalandoci ben due gemme: “Believin'” e “More Love”.
La prima, con il suo vorticoso coro, ha una trama di suoni degna di calcare il palco delle hit. E se qualcuno può storcere il naso per i sintetizzatori posti al centro della song, l’assolo della chitarra spazza ogni incertezza sposando il grido del frontman.
“More Love” è un’altra pregevole aggiunta che sa regalare momenti delicati e sferzate di energie. Il fuoco inestinguibile della song, tuttavia, arde nel coro, che lancia la sfida a Steve Perry, dipingendo la linea melodica ideale per avvincere e ammaliare.

Sebbene i Dakota cercarono instancabilmente di promuovere “Runaway” (ad esempio, come opener dei Judas Priest) non riuscirono mai ad ottenere il giusto riconoscimento e nel 1987, dopo un concerto in Pennsylvania, Kelly e Hludzik sciolsero il monicker tra dissapori e tensioni interne.
Fortunatamente, la fine di un’epoca non segnò il destino dei Dakota: riscoperti nel 1995, i Nostri ritornarono alla ribalta con il tanto procrastinato terzo album, “Mr Lucky” (1996).
Un fatto curioso ma facilmente spiegabile: come tutta la buona musica, i Dakota avevano mantenuto ammiratori là dove il gruppo era venerato come cult band ossia in Spagna e in Scandinavia.
Come è potuto accadere? Rileggete attentamente l’inizio di questa recensione e ricordate che il rock, come disse Jerry Kelly, “… is a real global thing…”.

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