Recensione: Ruralizer
Dopo aver presentato l’EP di esordio del 2007, il combo piacentino trainato dal tandem formato da H.M. Outlaw ed Emilio Sobacchi esce allo scoperto con un full-length che reca il titolo “Ruralizer”.
La cover è dominata dall’inquietante presenza di un villico poco raccomandabile, armato di doppia falce nel mezzo di un campo di grano, con cielo infuocato sullo sfondo.
Nutriamo senza ulteriori indugi il nostro avido lettore e, subito, veniamo investiti dall’opener “Old Blood”, caratterizzata da suoni ruvidi e decisi, appena ingentiliti da qualche nota blues incastonata nella rozzezza del sound. L’assolo chitarristico, di chiaro stampo southern, cavalca l’insistente base ritmica che schiuma rabbia senza perdere un colpo, fino a riprendere il refrain iniziale, grezzo e cattivo al punto giusto. La voce, graffiata e grintosa al tempo stesso, si allinea perfettamente alla sonorità d’insieme.
“Acid Overlord” è una galoppata dai toni dark, ruvida e senza fronzoli, con basso chitarra e batteria che ricordano i Black Label Society: un riff martellante e grattato accompagna la song con ritmo incalzante, fino alla chiusura fiammeggiante, in cui la chitarra acquista uno spessore sempre maggiore, riuscendo a ingrossare il sound in modo assai efficace.
Con “Gravey Blues” veniamo nuovamente investiti da riffoni a tinte scure, robusti e pesanti come un macigno, decisi a non fare prigionieri, intercalati da indovinatissime schitarrate di scuola blues che fanno da geniale contrappunto alla dicotomia evocata dal titolo stesso. Nel bridge è l’aspetto dark a prevalere, mentre il guitar solo evidenzia ottimi spunti che concorrono a fare di questa song un episodio assai significativo nell’ascolto dell’album.
Con “Hellfire Rodeo” ci arriva dritta sulle orecchie un’altra legnata di puro hard ‘n’ heavy, inframmezzato da un assolo “old school” e condito da una voce aspra e incazzata come Dio comanda, che ben si sposa con tutta l’impalcatura poderosa della canzone.
“Ruralizer” si apre con un riff che, inizialmente, trasuda spruzzate di rock e blues nella sua immediatezza, ma poi va acquisendo una forza sempre maggiore, diventando vieppiù diabolico ma, comunque, sempre perfettamente ambientato nel contesto dell’intero brano. L’assolo, di grande fattura, si distingue per originalità, essendo contrappuntato da un tocco di banjo che ribadisce l’orientamento inequivocabilmente sudista dei musicisti piacentini.
Nella successiva “Bite the Dust (and bleed)” il riff di marca southern, orecchiabile e incisivo, cementa la struttura dell’intera canzone, ben impostata e di immediato impatto. La base ritmica è la locomotiva che continua a sbuffare, senza cedimenti, sui binari macinando km di polvere sulle linee tracciate dall’ottimo lavoro chitarristico di Mario Percudani.
“At The Bitter End” è una song ben studiata e costruita, con un’architettura in cui ogni componente contribuisce, in giusta misura, al risultato finale. Cadenzato e tremendamente heavy, questo pezzo strizza l’occhio ai Classici, regalando un altro momento piacevole a ogni nostalgico del genere. Da sottolineare, qui, l’apporto delle tastiere di Paolo Negri, che irrompe in modo lineare e possente nel ruvido contesto generale, rafforzandone l’espressività.
Con “Mississippi Queen” (cover dei Mountain rivisitata) arriva una sana sferzata di Rock & Blues che soddisfa il palato di ogni appassionato: una dosata miscela di basso e batteria sorregge le impennate chitarristiche in questa ottava tappa dell’avventuroso viaggio dei Tombstone Highway lungo le strade polverose e soleggiate del grande Sud.
“Hangman’s Frend” è un’accelerata scatenata e senza fronzoli, di quelle che lasciano il segno dei copertoni sull’asfalto arroventato: la canzone risulta ben condita dai puntuali e rabbiosi acuti di una chitarra ribelle, colonna portante e, a volte, sapientemente brutale di tutta l’opera.
Terminato l’ascolto di questo nuovo prodotto discografico, la prima considerazione che salta all’orecchio è lo stile nudo e crudo palesato dalla band, che sventola il vessillo di un Southern Hard Rock arricchito da altre componenti: il doom di reminescenze sabbathiane, il country evocato dalla discreta presenza del banjo, il blues della slide guitar, l’heavy metal reso protagonista dai ricorrenti e, soprattutto, rocciosi riff chitarristici.
Ringraziamo dunque i Tombstone Highway per averci condotti in questo gradevole viaggio sulle strade polverose del profondo Sud, facendoci gustare sapori vecchi e nuovi dovuti alla commistione di indirizzi stilistici sempre attuali. Ride on!
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Nota a margine: Il disco è stato prodotto, registrato e masterizzato da Daniele Mandelli presso l’Elfo Studio di Tavernago (PC) e mixato presso il Tanzan Music Studio di Ospedaletto Lodigiano (LO). La grafica è a cura di Bazar Studio. Le foto sono di Pierangela Pagani.
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