Recensione: Rust
Sembravano lanciati benissimo sino a qualche anno fa i Crashdiet, una delle band di maggior spicco dell’ondata glam hard rock scaturita dalla Scandinavia a partire dai primi anni 2000.
Dopo un po’ di problemi iniziali, culminati con la scomparsa del primo frontman, Dave Lepard, il quartetto svedese pareva aver trovato una stabilità credibile con l’innesto di Simon Cruz – una sorta di Billy Idol nordico – e la produzione di una coppia di ottimi album come “Generation Wild” e “The Savage Playground“, usciti tra il 2010 ed il 2013, a sancire un entusiasmo ritrovato e a sfoggiare una vena creativa rinnovata ed efficace.
Poi, di nuovo, il nulla.
Scomparsi dai radar per più di un lustro, oscurati dalla memoria ed un po’ dimenticati. Vittime anche loro, di quella immane quantità di nuove uscite d’ogni genere e tipo, prodotte come una marea inarrestabile non solo dalla natia e sempre prolifica Svezia, ma un po’ in ogni parte del globo.
Insomma, siamo coerenti: ai Crashdiet, complici i vari Cruzh, Ammunition, Crazy Lixx, Eclipse ed affini, sinceramente non pensavamo più.
I loro vecchi cd ci erano piaciuti invero parecchio, ma da un po’ di tempo – troppo forse – il loro nome non affiorava più tra la consuetudine dei nostri ascolti.
Un vero peccato in fondo: l’ensamble di Martin Sweet aveva divertito parecchio in passato e l’averlo perso così, senza un valido motivo, poteva rappresentare un rammarico per ogni assiduo ascoltatore di quel particolar tipo di suono incandescente, eppure melodico, di chiara matrice nordeuropea.
Un preambolo un pizzico esteso tuttavia necessario per affermare che, in effetti, fa davvero molto piacere ritrovare il nome dei Crashdiet nell’elenco delle nuove uscite di questo mese di settembre, accompagnato da tutte le relative attese e speranze che un moniker, comunque di riguardo e rilevante per il settore, reca necessariamente con se.
Un disco dall’appellativo strano ed un po’ sinistro: “Rust“, ruggine.
Arrugginiti, imbolsiti, in qualche modo rincitrulliti, viene da domandarsi? Macchè, semmai ancora più anabolizzati, ipetrofici e sovrabbondanti del solito.
Nei suoni soprattutto, irruviditi e metallizzati quasi a dismisura, resi muscolosi da una potente iniezione di cattiveria che spinge in alcuni frangenti al limite di un heavy corazzato ed arcigno. Esemplari le ritmiche di granito come non si era mai ascoltato in un disco dei Crashdiet che giganteggiano nei due pezzi d’apertura. Un buon biglietto da visita introduttivo che spiega all’istante “l’aria che tira” e la risoluta determinazione di Sweet e soci.
Non c’è più Simon Cruz, ennesimo frontman perso per strada, sostituito dal comunque ben focalizzato Gabriel Keyes, sconosciuto carneade – pescato nell’underground proprio da Martin Sweet – che se la sfanga senza problemi, mostrandosi all’altezza dell’impegnativo ruolo per l’intera durata del disco.
Ci sono, naturalmente, le consuete dosi di arena rock che fanno da efficace contraltare alla ruvidezza di chitarre onnipresenti e saettanti, sublimate in ritornelli orecchiabili e d’impatto, resi ancor più significativi proprio dal contrasto con le ambientazioni e le atmosfere di cemento che caratterizzano omogeneamente i brani.
Pezzi torridi, caricati di riff ed assolo fiammeggianti che ridisegnano nuovamente le coordinate del glam rock sulla base di canzoni robuste e vigorose quali “We Are the Legion”, “Parasite“, “Reptile” e “Stop Weirding me Out“
Con un picco di godimento assoluto nella beffarda ed ironica “Crazy“: il volume si alza, la testa ciondola ed il pensiero va, inevitabilmente, ai Lizzy Borden di “Deal with The Devil“, un album che – in qualche modo – potrebbe rappresentare una specie di termine di paragone per questo “Rust“.
Non è forse il capolavoro che ci saremmo attesi dopo un periodo d’assenza così lungo, ma accidenti, la nuova versione ipervitaminizzata dei Crashdiet viaggia che è un piacere, abbattendo con veemenza l’alone di possibile scetticismo dovuto alla nomea altalenante di una band che non ha quasi mai saputo dar seguito alle aspettative legate ad una possibile, definitiva, consacrazione.
“Rust” è un buon modo per ritornare in scena dopo parecchio tempo, per riannodare le fila del passato recuperando magari un po’ dell’audience inevitabilmente smarrita in più di sei anni d’assenza.
Ci sono di nuovo anche loro, gli audaci Crashdiet di Martin Sweet, Peter London ed Eric Young, nel panorama scintillante del migliore hard rock europeo.
La speranza ora, è di non perderli un’altra volta, invischiati alla rincorsa dell’ennesimo frontman o di improbabili ispirazioni artistiche.
Il tempo passa, i treni scappano e nemmeno i proverbi lasciano scampo: bisogna battere il ferro finché è caldo…