Recensione: S.E.I.

Di Edoardo Turati - 17 Novembre 2020 - 10:28
S.E.I.
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“Le spirali che ti avvolgono, i deliri che ti assalgono,
il tuo scettro di imbecillità nell’impero di mediocrità.
Sei troppo drogato per capire che
tu sei solo un fantoccio nelle mani dei correi.”

 

Prima di iniziare con la recensione partiamo da un’affermazione inconfutabile e incontrovertibile: La Maschera di Cera è una band pazzesca, al top nel panorama italiano. Ecco, lo sapevo, già vedo le facce perplesse di chi sta leggendo e sicuramente starà pensando: “Ma se sono così bravi perché in Italia non li conosce nessuno?”. Le risposte in realtà potrebbero essere molteplici, partendo dalla scarsa propensione del nostro Paese per certi tipi di sonorità, passando per i (terribili) talent show musicali, sino ad arrivare ovviamente all’inesorabile music business che cala la sua mannaia senza pietà. Per fortuna c’è qualcos’altro che muove l’anima della musica, e che va oltre la mediocrità di chi si fa imporre il volere altrui, ed è la passione, l’amore, la coerenza, la costanza di chi va avanti avendo la forza di spezzare i fili del burattinaio. La Maschera di Cera, così come tantissime altre band smarrite nel limbo dell’underground, è l’esempio lapalissiano di chi porta avanti con coraggio la propria idea.

A questo punto dobbiamo fare un salto temporale a ritroso di quasi 20 anni, quando un artista sensazionale e incontenibile di nome Fabio Zuffanti decide di mettere in piedi l’ennesimo progetto musicale (oltre a Finisterre, Hostsonaten e Quadraphonic tra i tanti), mosso dalla devozione per la musica degli anni ’70 che è diventata negli anni a seguire un vero e proprio fenomeno di culto. Con La Maschera di Cera Zuffanti esalta il prog nella sua accezione più pura, intesa come contaminazione, abbattimento di tutti i concetti classici di canzone e scevra da ogni schema, riuscendo soprattutto a renderla attuale e moderna se pur con forti richiami a band come Balletto di Bronzo e Museo Rosenbach su tutti. Per dare vita alla sua creatura, decide di chiamare a rapporto il tastierista Agostino Macor (già suo compagno nei Finisterre) ed il cantante Alessandro Corvaglia. Forse è stata proprio quest’ultima la mossa più azzeccata, perché Corvaglia è un vocalist incredibile, uno dei più versatili e coinvolgenti cantanti italiani degli ultimi vent’anni. Con queste premesse il debut eponimo del 2002 “La Maschera Di Cera” aveva creato aspettative altissime che ovviamente non sono state disattese. Si sono poi susseguiti album di livello altissimo: nel 2003 Il Grande Labirinto, LuxAde nel 2006 e Petali di fuoco nel 2009 (questi ultimi due prodotti da Franz di Cioccio), sino al penultimo e incredibile album del 2013, Le Porte Del Domani, in cui la band osa come non mai, riprendendo il discorso iniziato 40 anni fa da Le Orme con Felona e Sorona portandolo a una possibile conclusione. Per essere il più aderenti possibile alla proposta de Le Orme e per dare continuità assoluta al progetto fanno uscire l’album anche in versione inglese (The Gates Of Tomorrow) e si affidano al pittore Lanfranco Frigeri, lo stesso che disegnò il quadro che poi diventò la meravigliosa copertina di Felona e Sorona, che “dona” una propria opera anche per l’artwork. Progetto intrigante, rischioso, folle e per certi versi anche arrogante, ma La Maschera di Cera ne esce a testa altissima, regalandoci un prodotto di grande valore e ottima fattura.

Siamo quindi arrivati ad oggi, sono passati 7 anni dall’ultimo capolavoro e ci sono mancati parecchio, ma finalmente possiamo goderci ancora la meravigliosa musica di Zuffanti & Co. Il sesto disco della band ha come titolo S.E.I., ma non essendo mai banali i nostri, il titolo diventa anche l’acronimo di “Separazione / Egolatria / Inganno” che sono anche le parole che fanno da filo conduttore per le tre canzoni presenti nel disco. Tre canzoni è riduttivo perché in realtà ci troviamo di fronte a una lunga suite di quasi 22 minuti, un altro brano di 10 minuti e in chiusura una mini-suite di 11 minuti. Struttura che più prog non si può, in cui si intrecciano dei veri e propri labirinti musicali, con momenti folk, temi cupi e ossessivi che si alternano a grandi aperture per poi sfociare in contaminazioni jazz. Tutto questo è il marchio inconfondibile della band, che nell’opener “Il Tempo Millenario” ci racconta un viaggio nel tempo avvincente e onirico con momenti di assoluta esaltazione in cui si alternano toni scuri del mellotron, strutture sinfoniche e momenti più rock che ci catapultano nella stessa linea temporale del mondo de La Maschera di Cera. Volano letteralmente i 21 minuti della prima suite e siamo già avvolti da atmosfere marcatamente canterburiane de “Il Cerchio del Comando”. Il flauto onnipresente nel brano è un chiaro retaggio dei Jethro Tull e tutto il brano trasmette un’atmosfera festosa tipicamente folk con la chitarra acustica di Corvaglia, lasciando nel finale gli strumenti a dare libero sfogo compositivo alle proprie velleità. “Vacuo Senso” chiude il disco tornando su toni cupi e cambiando nuovamente pelle, questa volta spostandosi su territori che ricordano i primi Banco del Mutuo Soccorso. Il sax dona un tocco piacevolmente jazz e i synth ci accarezzano con trovate eteree, mentre nei momenti più intimi del brano è la voce di Corvaglia a trasmettere passione ed emotività. Il disco termina scemando con un bel saluto di pianoforte e la cosa che rimane è un senso di mancato apapgamento perché ne vorremo ancora e ancora.

Se siete amanti del progressive soprattutto quello di matrice tricolore allora dovete assolutamente fare vostro questo disco, suonato con perizia, scritto in modo sublime e cantato da un grande interprete. Ma non basta… andate e divorate letteralmente tutta la discografia de La Maschera di Cera non ve ne pentirete in nessun modo.

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Genere: Progressive 
Anno: 2020
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