Recensione: Sabbath Bloody Sabbath

Di Abbadon - 15 Settembre 2003 - 0:00
Sabbath Bloody Sabbath
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Anno: 1973
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95

La folle corsa dei Black Sabbath, iniziata nel 1970 con l’omonimo, sconvolgente per l’epoca, album omonimo, prosegue su una scia di grandissimi titoli (“Paranoid”, “Master of Reality”, “Volume 4”) fino ad arrivare al dicembre del 1973, quando sulle bancarelle fa la sua comparsa il quinto capitolo di questa epopea : “Sabbath Bloody Sabbath”. L’album in questione rappresenta una ulteriore sconvolgente rivelazione, in quanto il combo, anzi soprattutto il chitarrista e leader Tony Iommi, decise che era giunta l’ora di una virata al classico stile della band. Quindi, dopo i già timidi accenni presenti su “Volume 4”, “Sabbath bloody Sabbath” vede l’introduzione di diversi elementi nuovi e in fase sperimentale. L’elemento di maggior novità risiede sicuramente nell’addizione di un membro alla rodatissima line-up che prevedeva appunto Iommi, Ozzy “Madman” Osbourne, Geezer Butler e Thomas Ward, e tale membro non era esattamente un pizza e fichi qualunque, ma il grandioso tastierista degli Yes Rick Wakeman. E proprio le tastiere costituiscono l’altra maggior novità, assieme all’uso di organi, sintetizzatori e altri strumenti non esattamente “avvezzi” all’heavy metal per come veniva concepito all’epoca. Il risultato però fu a dir poco superbo, in quanto le atmosfere tipicamente Sabbathiane vennero ulteriormente enfatizzate senza perdere quell’incisività e quell’aria cupa che erano ormai marchio di fabbrica. Come già avrete potuto intuire dalle righe qui sopra, “Sabbath Bloody Sabbath” è un disco musicalmente eccezionale, il quintetto è in forma strepitosa e non lo nasconde certo nei vari componimenti. Abbiamo quindi un Tony Iommi che da miglior tradizione macina struggenti riffs con la precisione e la costanza di una macchina, William Thomas Ward che picchia con grande ispirazione dietro le pelli della batteria, Geezer Butler che fa il suo oscuro lavoro di bassista, incupendo la miscela sonora, lo special guest Wakeman a insaporire il tutto e il buon vecchio Ozzy. Eggià Ozzy. Mai un cantante eccezionale quanto a voce, ma dotato di una verve, una creatività e un carisma davvero unici e singolari, Osbourne in questo disco ci regala una prova vocale al di sopra dei suoi standard, che dà una vena di follia a tutto il lavoro degli strumenti musicali. Decisamente oscuro (lo so ripeto sempre questo termine, ma non mi viene altro in mente) l’artwork, con quel letto farcito di teschio e scritta 666 sui suoi ornamenti, e la figura su di esso sdraiata e tormentata dagli spiriti maligni.
Forte di 8 song, Sabbath Bloody Sabbath si apre subito con l’eccezionale title-track, che secondo me rimane un vero e proprio classico del Sabba Nero. Subito un riff pesante come un macigno, ma che definire carismatico è un eufemismo, ci porta a perderci nel sabba sanguinolento. La song è caratterizzata da parti pesanti e tratti melodici di incredibile bellezza, tale che la prima volta che irrompono causano quasi una sensazione di smarrimento. In tali parti melodiche va segnalato soprattutto uno strapositivo Ozzy, che con la sua voce in questo caso particolarmente intonata, enfatizza mica male il suonato. Splendido pure l’assolo, lento ma duro come un sasso. Dopo essersi presentato in maniera che meglio non si poteva, il quinto prodotto del combo inglese continua con l’altrettanto valida “A National Acrobat”, mid tempo tecnicamente non al livello della titletrack, forse un pochino ripetitivo, ma sicuramente altrettanto carismatico. Da notare subito l’impressionante somiglianza del riff che supporta tutto il primo tratto di song con quello della seconda parte, venuta più di 10 anni dopo, di tale canzone dei Metallica di nome “Fade to Black”. Non sto accusando né di plagi nè di niente altro, ma la somiglianza è tutta lì da sentire. Degna di nota soprattutto la chiusura del pezzo, decisamente pirotecnica dopo un singolarissimo e “contorto” tratto centrale. Un magistrale arpeggio fa da introduzione alla strumentale “Fluff”, traccia di 4 minuti e poco più ove i Sabbath ci mostrano il loro lato più melenso, e se vogliamo pure romantico. Grande lavoro di Wakeman sullo sfondo, e ottima prestazione in generale di tutti gli strumenti “di innovazione”, che per la prima volta assurgono al rango di protagonisti della song. Questa magica atmosfera viene interrotta dalla cattiveria di un’altra classica per eccellenza, ovvero “Sabbra Cadabra”, che inizia con un grandissimo Iommi e un ottimo Ward. La song si sussegue piuttosto rapidamente, infrangendo come detto l’atmosfera creata da Fluff, e anche qui il buon Rick ci mette del suo, con eccellenti tratti di pianoforte, che conferiscono ancora più enfasi di quanta Sabbra Cadabra già non abbia, per un risultato davvero 5 stelle. Ma non è finita certo qui. Infatti ci si presenta subito l’ennesimo pezzo da 90, intitolato “Killing yourself to live”. Il brano è tra i più rockeggianti del lotto, sia per i riff che per le ritmiche che per la velocità della song. Musicalmente Killing è suonata davvero bene, e abbiamo sia una delle migliori prove di Ozzy dietro il microfono che assoli tra i più lunghi e coinvolgenti di tutto Sabbath Bloody Sabbath (il secondo in particolare è una perla di rara bellezza). Un lavoro di sintetizzatori funge da attacco all’oscura e malinconica “Who are You”, forse la track più cupa e densa di sperimentazioni in assoluto dell’album. Il lavoro svolto dall’elettronica qui è davvero molto pesante, ma il risultato è complessivamente più che soddisfacente. Anche se reputo “Who are You” il pezzo più debole del disco, rimane comunque una canzone da ascoltare e riascoltare, soprattutto per un tratto di tastiere (che servono praticamente per l’assolo) a dir poco fenomenale. Ritorno a melodie molto più hard rock con la validissima “Looking for Today” che nasconde però una falsa allegria. Infatti il brio delle parti suonate (e composte come al solito in maniera superba), fa da grandioso contrappasso alla tristissima lirica, che narra di una persona che si brucia la carriera, carriera che aveva appena raggiunto il massimo splendore. Fantastici il ritornello e l’assolo che conclude in fade out il pezzo, lasciando spazio all’ultima icona del disco, la leggendaria “Spiral Architect”. Introdotta da un melanconico arpeggio di guitar, Spiral Architect racchiude al suo interno tratti estremamente melodici ad altri decisamente più sonori. Tali due parti sono comunque splendidamente legate, ed esaltate ancora dal lavoro in sottofondo di ottime parti orchestrali, che infarciscono una song a mio parere tra le più belle mai concepite dai Black Sabbath.
Che altro dire?. Abbiamo terminato l’ascolto di una delle perle più luminose che l’heavy metal può offrirci, tutto qui. Questo è nettamente il mio album preferito di tutta la gloriosa discografia dei Black Sabbath, e anche se qualcuno può obiettare questa mia affermazione, non credo non possa dire che comunque ci troviamo davanti ad uno dei lavori più importanti dei creatori del Metallo Pesante, forse quello che maggiormente ha contribuito all’evoluzione del genere. E’ una bestemmia non avere nella propria discografia questo vero e proprio oggetto di culto.

Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :
1) Sabbath Bloody Sabbath
2) A National Acrobat
3) Fluff
4) Sabbra Cadabra
5) Killing Yourself to Live
6) Who are You?
7) Looking for Today
8) Spiral Architect

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