Recensione: Sacred Blood “Divine” Lies
“Un alone di mistero circondava l’enorme sala: le colonne dorate svettavano imponenti, adornate da geroglifici arcani e contorti.
Sul pavimento pesanti bracieri proiettavano riflessi insanguinati tutt’attorno, facendo luccicare ogni dettaglio più recondito, in un gioco di specchi che ingigantiva l’aura sacrale del tempio. In mezzo alla sala, un’immensa e arcigna creatura sedeva sul proprio trono.
La figura lo stava aspettando: con un gesto perentorio indicò il ragazzo, allungando il suo acuminato artiglio. Gli occhi del mago erano magnetici e il giovane sentiva ghermire la propria mente e disarmare le proprie certezze.
Quella sensazione di disagio era un martello sul proprio cuore, reso ancora più pesante dai due rapaci appollaiati sul trono: grandi come i Roc del mito, erano strumenti vivi del loro padrone, che mettevano a nudo dubbi e paure…”
…quando si ammira un dipinto di Rodney Matthews, veniamo condotti in un mondo di interrogativi e immagini criptiche, che popolano il reame fatato dei Magnum. Ancora una volta, il nuovo capitolo di questa saga è molto più legato alla realtà di quanto possa sembrare: il linguaggio fantastico è la chiave della stanza dietro la quale si celano le bugie e i segreti taciuti nel mondo reale.
CAPITOLO I
SACRED BLOOD “DIVINE” LIES
“Sacred Blood “Divine” Lies” rappresenta questa stanza, in cui è custodito il senso musicale e lirico di una poetica che sopravvive fino ai giorni nostri: l’atrio è dominato da accordi possenti quanto pilastri istoriati, figli di un hard rock magniloquente e al contempo epidermico.
Il coro si erge disperato, brandisce potenza e passione contro il bieco signore che vuole accecarti con l’acre fumo delle menzogne, inebriarti con promesse di gloria e ricchezza lorde di sangue.
L’arma per opporti a questo perverso giogo è forgiata nella fucina di un fuoco inestinguibile che brucia nel nostro cantore, Bob Catley, ispirato pur con il trascorrere del tempo.
CAPITOLO II
CRAZY OLD MOTHERS
Il trascorre del tempo è un ostacolo insormontabile, che può fiaccare e sconfiggere band dall’onorata carriera. Tuttavia, sembra che i Magnum riescano a non avvertire il peso degli anni e la loro vena creativa non si è esaurita ma si arricchisce inserendo parti sinfoniche nel telaio compositivo.
“Crazy Old Mothers” è animato dalla voglia di non arrendersi: come fiocchi di neve la malinconia dei tempi andati scende sulle note del piano. E’ un alone che dura brevi istanti allorché Clarkin conduce la sei corde in una danza regale e drammatica, proiettando balli in un palazzo incantato.
Dalla magnificenza di Tony, la canzone torna nell’ombra e il piano costruisce una scala tortuosa, una lunga galleria in cui Bob mostra con estro toccante la storia di una vita, le sue tappe, ci fa percepire dolore, sacrifici e anni trascorsi. Grandioso l’affresco corale al centro del brano, dominato da suoni che si espandono e ci circondano in un’immensa visione, costellata da frammenti di ricordi in un fiume di melodia.
CAPITOLO III
GYPSY QUEEN
Seguendo l’estetica di un libro, i brani si intrecciano con la storia dell’hard rock inglese, della band stessa e della nostra storia di persone sognatrici: l’arrivo nell’antica città di San Pietroburgo è un momento magico. Palazzi e monumenti bisbigliano racconti dimenticati attraverso la voce misteriosa del narratore.
Varcare le porte di questa città è come essere ammessi alla corte della fascinosa regina degli zingari, figura iconica ricorrente nella storia dell’hard’n’roll perché simbolo di libertà di vivere, svincolata dalle pastoie della società inquadrata.
E quando il sole tramonta e l’oscurità incorona la propria sovrana, il coro volteggia alto e celebra un linguaggio diretto ed emotivo ovvero lo spirito liberatorio e sincero di fare rock, al di là delle mode e dei trend.
CAPITOLO IV
PRINCESS IN RAGS (THE CULT)
Quando gli ultimi fuochi svaniscono e lasciamo gli allegri gitani e la loro regina, c’è una principessa che ci aspetta. Non è uno sdolcinato lento o un racconto di miele e soffici agi: gli accordi sono scossi, frammentati, nervosi e si incastrano con le tastiere, le quali scivolano tra le orme ritmiche come piccoli goblin vivaci e beffardi.
La principessa Alice in questa nuova avventura è cresciuta e sono cresciuti i suoi problemi: la principessa è braccata dalle avversità, non è una pomposa regina ma un’umile donna dalle vesti stracciate.
La voce di Catley è roca, scalda gli animi, non è nettare ma parole roventi che mordono l’acciaio, lanciano una sfida ai pericoli nascosti nella notte della propria mente. “Alza il tuo volto” incita il narratore e la chitarra combatte in una successione di suoni scattanti, lampi di adrenalina che balenano nella lotta, tra te (Alice) e le fredde lame dei tuoi nemici.
CAPITOLO V
YOUR DREAMS WON’T DIE
Ci sono momenti in cui bisogna lasciarsi alle spalle la tensione e fermarsi a riflettere, senza rinunciare a sognare. I Magnum ce l’hanno sempre insegnato e ce lo ricordano, facendo scorrere le note su una ritmica semplice e concisa, accarezzandole con parole toccanti e ospitali.
Il coro è come un fantastico rondò, scritto durante una serata calda d’estate o in una dolce notte d’inverno. Gli archi donano un senso di spensieratezza quasi potessimo afferrare i nostri dolci sogni, perdendoci nell’azzurro di un cielo terso dai propri errori.
La melodia danza aggraziata e discende dal castello arroccato sulla rupe fino agli umili borghi di campagna, abbracciando senza distinzioni sociali la voglia comune di sperare in un futuro sereno.
CAPITOLO VI
AFRAID OF THE NIGHT
La notte è il luogo dove siamo messi alla prova: il cuore, ora, pulsa forte e vivo come la sei corde di Clarkin, ora, sussulta al pari degli archi. “Hai ancora paura della notte” Sentenzia duro e sofferente Catley. “Sei solo” Fa eco il coro.
Ad un tratto, ci smarriamo nella solitudine ed entriamo in una dimensione dove realtà e sogno si confondono, prigionieri di una camera stregata. La realtà si deforma, immagini e suoni partecipano ad un valzer decadente e malinconico orchestrato da Mark Stanway. La voce diventa un richiamo sibillino e profondo, che fluisce come il soffio del vento tra le fessure di un vecchio muro. Sembra di andare alla deriva attirati da una forza nascosta.
Come un’ancora di salvezza, la sei corde sveglia dal torpore con splendente passione e l’illusione svanisce. Tuttavia, siamo ancora soli nel buio, il nostro respiro ansima nel gelo. Abbiamo ancora paura, perché siamo soli… fragili ed umani.
CAPITOLO VII
A FORGOTTEN CONVERSATION
La notte del cuore giunge al termine e con essa il suo travaglio. L’alba risplende fredda e i primi raggi di luce vengono annunciati dal suono degli archi, così antico, così atmosferico.
Bob fa affiorare memorie che avevi dimenticato. Un sentimento di rivincita, la volontà di trovare il proprio cammino grida nel tuo animo. Le parole risuonano epiche, il ritornello è cadenzato e risoluto mentre sta scrivendo il poema della tua grande avventura.
Al tuo fianco, Clarkin e la sua chitarra incedono prima testardi, poi, lanciano un vibrato di sfida che risuona veemente e acceso nelle valli, nelle strade e nei recessi dei pensieri.
CAPITOLO VIII
QUIET RHAPSODY
Nell’aria freme un ronzio che taglia il silenzio. Non è un canto di pace: le corde fanno vibrare la minaccia di un riff d’acciaio. E’ un suono buio come ali di pece e implacabile come i tuoi nemici. La voce è prudente, quasi stesse scappando da quel accordo inarrestabile.
Ad un tratto, emerge dal suo nascondiglio il canto del coro e sovrasta l’interminabile avanzata della sei corde. L’inseguimento sembra cessare e Catley, all’unisono con i suoi compagni di viaggio, bisbigliano decisi a non lasciare l’impresa.
Un’impresa che la sei corde sospinge con la stessa epicità e carisma di un leader, che già nella sua prima missione dimostrò il proprio valore (“Kingdom Of Madness”).
Sarà un racconto da tramandare, questo è certo…
CAPITOLO IX
TWELVE MEN WISE AND JUST
Non serve solo caparbietà e cori per compiere un’impresa, ma anche la saggezza, ovvero il giusto equilibrio tra mente e passione. E i Magnum, ora, lo sanno: sono emotivi come ai tempi di “Just Like An Arrow” e, al contempo, restano riflessivi, per non perdersi nel Giardino dell’Ombra.
Così sanno sia riposare vicino ai gentili tocchi del piano, che lanciarsi sui ritmi più concitati della chitarra, guardando al futuro senza mai demordere.
La voce è carica di entusiasmo in questa affannosa ricerca della meta, il protagonista prende le sembianze di ognuno di noi e il basso diventa un destriero su cui montare e travolgere compressi e indecisioni. Il nostro storyteller, Bob, da voce a questo impulso di vivere ed ogni ombra dal nostro cuore scompare.
CAPITOLO X
DON’T CRY BABY
Siamo smarriti nella radura e ci avviciniamo alle spoglie di quel che era la nostra casa, il nostro passato. I tuoni in lontananza della batteria scandiscono i nostri passi mentre gli archi nascosti conducono una triste e drammatica melodia ai nostri sensi.
Percepiamo una voce sommessa e forzata come piccola fiamma celata nel bosco. Incomincia a piovere, e il grido del coro ci vieta di piangere, ci ordina di andarcene con la chitarra cristallina, con i piccoli ma decisi tocchi del pianoforte. In mezzo a questa canzone di speranza, tasti d’avorio allegri ed argentini invitano a correre lontano dalle nostre vecchie sofferenze e tristezze.
E mentre vibrano acuti lamenti dalla sei corde, noi siamo già fuori dall’oscurità…
EPILOGO
E’ fantastico trovare ancora avvincente un racconto firmato Magnum, soprattutto se avete seguito i Nostri in ogni loro tappa. “Sacred Blood “Divine” Lies” stupisce perché mantiene vitale lo stile originario, senza snaturarlo con l’aggiunta di suoni e produzioni troppo moderne, curando maggiormente l’aspetto epico e teatrale rispetto ai predecessori. Missione compiuta grazie al giusto apporto d’inserti di elettronica e delle aperture sinfoniche, contributi che, lungi dall’essere corpi estranei, non appesantiscono il registro e rendono l’atmosfera musicale varia e ariosa.
A riguardo, la presenza di Mark Stanway è percepibile e il tocco del tastierista è sempre ben calibrato, mai noioso e ridondante, in perfetta simbiosi con l’intero palinsesto musicale (le keyboards non rubano la scena agli altri strumenti e non vengono messe in primo piano con un conseguente appiattimento del suono).
Dal canto suo, il batterista Harry James contribuisce con una performance spontanea ed evocativa, a tratti marziale, messa in risalto dalla produzione bilanciata, come dimostra “Don’t Cry Baby” (brano per il quale è stato mantenuto il drumming del primo demo). Non dimentichiamoci di Al Barrow e del suo basso, che aggiunge dinamicità ai brani, come testimonia il ritmo sostenuto di “Quiet Rhapsody”.
Questo perfetto equilibrio strumentale, la scrittura sempre ispirata di Clarkin e l’ugola di Bob, rendono il nuovo disco toccante e ricco di emozioni come fosse la prima volta per gli Albionici. Menzione particolare va al mitico Catley, che dimostra l’importanza di interpretare le liriche, di creare il giusto mood vocale, per far vivere le canzoni e per far vivere gli ascoltatori nelle canzoni. Non è solo questione, dunque, di mero tecnicismo ma anche di calore e brio interpretativo.
“Sacred Blood “Divine” Lies” è la fiaba del nostro tempo, da leggere tutta d’un fiato, potente ed evocativa nei sogni e nelle immagini che genera, veritiera nei messaggi che trasmette.
Tuttavia, questa è solo una delle tante storie che devono essere ancora narrate…
The End… ?
Eric Nicodemo