Recensione: Sacrosanct
Misteriosi, i belgi Epoch. Di loro si conosce solo il cantante, R.P., al secolo Rob Polon. Altro non si sa, a parte dell’esistenza di un debut-album uscito come autoproduzione nel 2015 ma ripubblicato quest’anno dalla Lavadome Productions: “Sacrosanct”.
Per il resto, basta e avanza: gli Epoch sanno benissimo come metter giù death metal bestiale, furente, violento. Lo spietato growling di P.A. (che trova leggera somiglianza in quello di Peter dei Vader, giusto da avene un’idea) raccoglie a sé tutte le possibili forze oscure per condurre la sua band verso l’annichilazione. Il sound è imperioso, possente, massiccio. Un unico troncone metallico che si abbatte come una furia, controllata, sulle membrane timpaniche dell’ascoltatore.
Azzeccato il colore anzi il non-colore della cover: il grigio. Che, come una densa e inamovibile cortina nebbiosa, avvolge completamente la materia come un sudario, stritolandola, demolecolarizzandola. La chitarra svolge un lavoro imperioso fra ritmiche serrate e continue, e ardite dissonanze sui toni più alti (‘Altered States’). Il basso tuona come in un tornado, fornendo una spessa e invalicabile parete sonora, fungente da supporto a un drumming scellerato e maligno, disarticolato, spesso impegnato a sopravvivere durante i furibondi blast-beats, quasi nauseabondi per la vertigine che essi determinano.
Come suggerisce la song più su menzionata, lo stile della formazione belga è funzionale all’alterazione definitiva della percezione sensoriale. L’immersione totale in “Sacrosanct”, difatti, provoca una sorta di trance ipnotica, causata dallo stordimento che brani violentissimi, come per esempio ‘Fear Ritual’, inducono alla funzionalità mentale per trovare, quale unica via di fuga, l’allucinazione.
Un approccio così assoluto al death metal, sì da crearne una miccia per l’accensione della pazzia, dà luogo, e non poteva essere altrimenti, a una certo ripetersi dello schema compositivo di base. Preso nel suo insieme, difatti, “Sacrosanct” è un platter che, letteralmente, obbliga il cervello a sclerotizzarsi in una massa uniforme e cristallina. Altrimenti, si disperderebbe nel vuoto. Ma, così facendo, viene a mancare la sorpresa. Lievito fecondante, invece, l’interesse a lungo termine.
Qualcosa, insomma, andrebbe diversificato, all’interno del disco. Per accrescerne la longevità ed entrare ancora più in profondità nell’anima, nel cuore e nella mente di chi incontra sulla sua strada. Non è un difetto grave, questo, che nondimeno impedisce al disco medesimo di sollevarsi con decisione dalla massa pulsante dei fabbricatori di death metal.
Death metal sicuramente non ortodosso, anzi. Si tratta di una forma assai rara, quasi unica, che conduce a identificare, piuttosto rapidamente, gli Epoch come il suo solitario creatore. Un’originalità che non si può nascondere poiché alla fine, tirando le somme, è il pregio migliore di “Sacrosanct”.
Il che non è poco.
Daniele D’Adamo