Recensione: Sagan om Rymden
I Kingnomad sono una giovane compagine (il gruppo nasce solo nel 2014) che, dal nord della Svezia, porta avanti il proprio discorso musicale di Occult Doom Rock pescando a piene mani dalla tradizione del rock psichedelico anni ’70. I nostri conoscono molto bene la materia che trattano e infondono al loro “Sagan Om Rymden” il giusto spirito, sperimentale e per certi versi istintivo ma di sicuro non improvvisato, filtrando nel proprio tessuto sonoro passaggi acustici e inserti di piano e hammond per agevolare una perfetta immersione nel mood rétro di cui sembrano nutrirsi. Si aggiunga al tutto un tono dilatato, ipnotico e serpeggiante, che dona ad ogni traccia un ottimo feeling e un andamento che definirei quasi da viaggio, ideale colonna sonora per lasciare la propria mente libera di muoversi senza freni, e che costituisce uno dei punti forti di questo lavoro.
Questa sorta di atteggiamento “fricchettone” – mi si passi il termine fin troppo semplicistico, utilizzato senza malizia né snobismo ma utile secondo me per definire un certo approccio che permea il disco – trasforma “Sagan Om Rymden” in un album per cui il viaggio in sé è importante quanto la destinazione. Le tracce si mantengono su un minutaggio generalmente contenuto ma non perdono occasione per esplorare territori meno convenzionali mescolando doom, rock, psichedelia e schegge progressive, eppure la loro atmosfera estremamente rilassata rende “Sagan Om Rymden” un’esperienza sì affascinante, ma anche piuttosto carente sul piano della tensione narrativa. In questo senso non aiuta molto un approccio vocale a mio avviso un po’ monocorde, flemmatico, a tratti quasi apatico nel suo adagiarsi su un supporto strumentale che invece, come accennavo, mostra notevoli potenzialità. Il continuo gioco tra atmosfere sognanti e improvvise frustate più dure, punteggiate di tanto in tanto da fraseggi funk, eleganza jazz, solennità diffusa e qualche passaggio folk rappresenta sicuramente uno degli aspetti da tenere maggiormente d’occhio per il futuro. Il guaio è che, nonostante queste premesse, durante l’ascolto di “Sagan Om Rymden” si percepisce piuttosto spesso la mancanza del cosiddetto ultimo passaggio, quel guizzo che permette di mettere la palla in rete (dai: mi avete già passato il fricchettone di prima, abbiate pazienza anche per la metafora sportiva). Questo guizzo, però, non arriva mai, relegando così l’album a un limbo di buone speranze non completamente attese.
Alla dinamica “Omniverse” il compito di aprire le danze: il pezzo è diretto e variegato grazie al gioco tra chitarra, organo e tastiere, e riesce a trasmettere anche una bella tensione grazie ad un approccio vocale ben indirizzato. “Small Beginnings”, a fronte di un’apertura uccisa da un falsetto fin troppo fuori contesto, inserisce nell’amalgama dei nostri un’inflessione doom che le dona un certo alone inquieto, dissipato di tanto in tanto da arpeggi dimessi ma anche meno opprimenti. “The Omega Experiment” sembra suonare la carica col suo piglio agguerrito, salvo poi controbattere di nuovo con tempi blandi per spezzare il ritmo incalzante che pareva aver preso possesso della scena, coronando il tutto con una sezione strumentale che profuma di space rock. Si arriva a un ottimo duetto costituito dalla lunga “Tillbakablick The Usurper King” – un vortice sonoro in cui i nostri danno vita ad un pezzo variegato ma al tempo stesso molto organico, carico di feeling e benedetto da una seconda parte d’altri tempi – e l’ipnotica “Multiverse”, il cui intenso, fascinoso retrogusto mediorientale le dona una carica sinuosa ed ammaliante. La breve traccia acustica “The Fermi Paradox” si distende su melodie folkeggianti su cui si innestano fraseggi rilassati, mentre con “The Creation Hymn” i nostri ritornano al progressive crepuscolare, fatto di arpeggi delicati e ritmi lenti punteggiati da parti corali in odor di anni ’60. “On the Shoulders of Giants” sembra metterci più grinta, iniettando una certa tensione nell’impasto dei nostri, ma tutto si risolve in un fuoco di paglia allorché la traccia torna a distendersi sui soliti ritmi blandi e rilassati, anche se va detto che, ogni tanto, traspare una certa inquieta malinconia che mi è piaciuta molto. Chiude l’album “The Unanswered Question”, introdotta da una musica ai limiti del funky che sembra uscita da qualche sit–com del passato sostenuta, però, da un ottimo lavoro al basso che funge da sottofondo a una improbabile seduta di ipnosi e costituisce la base su cui i nostri svedesi impostano le loro variazioni sul tema, creando un pezzo intrigante e dotato della giusta energia per chiudere l’album in bellezza.
Come già detto, “Sagan Om Rymden” non è affatto un brutto album, ma nonostante le sue ampie potenzialità e qualche ottima canzone non riesce a esprimersi al suo meglio, risultando spesso privo di quell’elemento che gli permetta di trovare la proverbiale quadratura del cerchio. La sua carica evocativa è sicuramente uno dei punti forti dell’album, per cui mi sento comunque di consigliarne l’ascolto, soprattutto ai fanatici di certe sonorità.