Recensione: [Saint Vitus]
A leggere la biografia dei Saint Vitus, anno per anno, disco per disco, si ha il senso di una cavalcata incredibile. Sono davvero molti gli album di grande impatto pubblicati dai losangelini, che anziché godersi il sole della California, le spiagge e i bikini fiammeggianti delle ragazze di Santa Monica, Malibù e Venice Beach, si sono chiusi in uno studio di registrazione per plasmare alcune delle canzoni più funeree, apocalittiche e psichedeliche della storia del rock. In ambito doom metal i Saint Vitus rappresentano una vera e propria istituzione, un benchmark si direbbe oggi; ma anche al di fuori dei ristretti confini del circuito doom, i Saint Vitus godono di un enorme rispetto e di una credibilità senza pari, grazie naturalmente alla qualità e alla visionarietà della musica che hanno saputo creare, inventando un trademark riconoscibile a occhi chiusi (ed orecchi ben spalancati). Fatta salva la parentesi affatto disprezzabile di “C.O.D.” (1992) con Christian Linderson dei Count Raven alle vocals, i Vitus hanno suddiviso i propri platter tra le prove vocali di due Scott, Reagers e Weinrich (Wino). Quattro album il primo, qualcosa di più il secondo, contando anche EP e live. L’omonimo “Saint Vitus” arriva a 7 anni di distanza da “Lillie: F-65” (il quale a sua volta riapriva i giochi dopo ben 17 anni di silenzio discografico). Ancora una volta assistiamo al passaggio di testimone, Wino ha lasciato nuovamente il microfono a Reagers, che torna a schierarsi sul palco davanti alla band a distanza di quasi un quarto di secolo dal bellissimo “Die Healing” (1995).
Abbastanza naturale che il primo termine di paragone sia dunque il disco con il cimitero in copertina, oltre ovviamente alle vibrazioni nostalgiche tutte rivolte agli esordi della band, compreso il debut, pure quello autointitolato. Se dopo 35 anni è stato avvertito il bisogno di ripartire con un disco chiamato “Saint Vitus” il messaggio arriva forte e chiaro, è un nuovo inizio ed il materiale è ritenuto talmente “forte” da meritare come titolo addirittura (e per la seconda volta) il monicker. “Lillie: F-65” è stato un album attesissimo, per i motivi già esposti e tuttavia, almeno per quanto mi riguarda, non si è rivelato all’altezza della storia del gruppo. Il nuovo “Saint Vitus” dunque ha la doppia eredità di riallacciare il discorso della band con i suoi fan e di risollevarne le sorti (per chi come me non ha trovato entusiasmante il suo precedessore). L’obbiettivo è parzialmente raggiunto, poiché senz’altro ci troviamo davanti ad un lavoro più significativo di “Lillie: F-65“, ma allo stesso tempo “Saint Vitus” (2019) non mi pare competitivo con nessuno degli album prodotti dalla band nello scorso secolo e millennio. Le atmosfere, le ambientazioni, gli odori ed i colori sono tutti giusti, ci si mette pochi attimi a ritrovarsi calati nelle brume melmose e lisergiche classicamente Saint Vitus; è tutto assolutamente coerente con quanto sentito in lungo e in largo all’interno della discografia di Chandler e compagni. Niente da eccepire in tal senso. C’è un vero ritorno alle radici (anche se grossi colpi di testa i Vitus non li hanno mai avuti, forse sarebbe meglio parlare di “stretta aderenza” alle radici). La differenza netta la fa sostanzialmente il songwriting, in termini di incisività, brillantezza e focus.
A mio gusto e parere il livello è molto buono in canzoni come “Bloodshed” e “Hourglass“, discreto in “12 Years In The Tomb” e “Last Breath“. Poi c’è quello strano gioiellino iconoclasta che è la conclusiva “Useless“, pezzo atipico per una doom band, ma neppure poi tanto a pensarci bene. Furenti iniezioni di hardcore, grezzo e saturo in chiave Saint Vitus, fanno da background ai 92 secondi di violenza e velocità ben condotti da Reagers alle vocals. Quasi un brano mono-nota (proprio “mono” magari no, ma le note usate si contano sulla dita di una mano), che nel suo vorticare ipnotico alla fine risucchia nel gorgo e devasta (piacevolmente) l’ascoltatore. Una bella sorpresa, un colpo di coda che assesta uno scossone rigenerante all’intero platter. “A Prelude To….” è una sperimentazione interessante che fa da propedeutica alla notevole e su menzionata “Bloodshed“; impostazione simile ma più “ambient” e soprattutto con risultati più modesti per “City Park“. Rimangono fuori dalla mia dissertazione “Wormhole” – non il miglior brano del lotto, niente che non vada ma parecchio di “maniera” per i Saint Vitus – e la opener “Remains” la quale, pur essendo assolutamente dignitosa, non apre secondo me col botto un album tanto atteso, desiderato ed importante; offre tutti i connotati “tipici” dei Vitus ma non sostanzia poi a dovere con materia d’eccellenza. Ad arricchire il tutto corrono in soccorso i consueti assoli-non-assoli di Chandler, maestro dei flanger, riverberi, feedback, distorsioni ed effetti vari, capaci di associare al doom più profondo e siderale dei Vitus quella botta di spirito ribelle e anarchico settantiano, chimico e acidamente psych(otico); ed anche l’interpretazione sempre assai teatrale di Reagers, decisamente distante dall’impostazione più “classica”, ancorché baritonale, di Wino.
In conclusione un album che non verrà annoverato tra i (già numerosi) capolavori della band, ma neppure un lavoro che fa un buco nell’acqua. Certamente ci sarà chi lo gradirà di più e ne tesserà grandi lodi, e chi – di contro – lo ridimensionerà, soprattutto se messo in rapporto con il materiale trentennale della band. Rimane comunque il piacere di poter riassaporare certe suggestioni e certi paesaggi sonori ai quali solo i Saint Vitus sono in grado di dar corpo e vita in modo credibile. La personalità della band è inconfondibile e sarebbe una grave perdita non poterne più beneficiare. L’album sarà poi l’occasione per rivedere i Vitus on stage, dimensione nella quale la band è estremamente a suo agio. Dunque promossi, ma non a pieni voti.
Marco Tripodi