Recensione: Salisbury

Di Keledan - 27 Aprile 2003 - 0:00
Salisbury
Band: Uriah Heep
Etichetta:
Genere:
Anno: 1971
Nazione:
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90

Gli Uriah Heep sono un gruppo da sempre sottovalutato e che non ha mai avuto il successo che meritava e merita. Forse la causa è da ricercare nella nutrita e agguerrita concorrenza dei colossi del rock anni 70, vedi Led Zeppelin, Deep Purple, Black Sabbath, forse nella mancanza di un’adeguata promozione.
Fatto sta che, dopo un buon esordio con “Very Eavy… Very Umble”, gli UH hanno pubblicato questo Salisbury, un bello spaccato dell’hard rock settantiano.
La musica è ancora influenzata da blues e jazz, caratteristica del resto che si può ritrovare in molti illustri contemporanei. In questo disco si viene a formare il sound che accompagnerà il gruppo fino al 1976, anno della separazione da David Byron, l’eccezionale vocalist e co-fondatore, allontanato per via dei suoi problemi di alcoolismo.
In generale gli UH settantiani suonano un hard rock con vaghe reminiscenze psichedeliche, caratterizzato dai robusti riff di chitarra di Mick Box ,  la spinta dell’irresistibile organo Hammond di Ken Hensley e rafforzato dal buon lavoro al basso di Paul Newton. Basso che diventerà sempre più protagonista nel song writing del gruppo inglese, vedi album quali Demons And Wizards (1972).

Il disco parte con “Birds Of Prey”, aperto da un potente riff di chitarra puramente Hard Rock, che a tutto lascerebbe pensare tranne che alle seguenti acrobazie in falsetto di Byron, un vero manifesto della scena dei primi settanta, un cantante tanto geniale e virtuoso che a volte sembrava matto da legare!

“The Park” è un lentone iniettato di jazz, una ballad malinconica che forse rappresenta il punto più ambiguo dell’album. Pur abbondando in sperimentazione e fascino, è caratterizzata da un’eccessiva lentezza, e dalla totale mancanza della componente rock.

In “Time To Live” tornano i riff di chitarra, per un buon mid tempo che si lascia ascoltare con piacere. Il tema della canzone, il ritorno alla vita libera dopo venti anni di prigione, sembra discostarsi dal concept. Begli gli acuti di Byron e, soprattutto, le iniezioni di Hammond, vera linfa vitale per ogni pezzo settantiano che si rispetti.

“Lady In Black”  è la ballad per eccellenza degli UH, ve lo dice uno che l’ha cantata seduto a gambe incrociate mano nella mano e tanta voglia di sentirsi un figlio dei fiori… Almeno  per quattro minuti e mezzo! Irresistibile la strofa, imbattibile il ritornello, pezzi come questi sono la fortuna dei produttori di accendini.

“High Priestess” è a suo modo uno dei pezzi più belli e caratteristici del gruppo inglese, caratterizzato da coretti dannatamente oldie e una chitarra super acida che si fondono in un finale da pura psichedelia.

A chiusura di questo splendido LP una suite di sedici minuti, la title track “Salisbury”. In primo piano intro e intermezzi sinfonici, inserti jazz e soprattutto tanti riff rock di buon gusto e il basso che spinge alla grande. Intendiamoci, gli UH non sono i primi nella scena a far uso di intermezzi sinfonici e extra rock, però il pezzo è così ben scritto, vario e progressive che gli si possono perdonare le tante assonanze con i Deep Purple.

Il consiglio finale? Comprate tutti gli album degli Uriah Heep con David Byron alla voce, non ve ne pentirete.

Sequenza dei brani:

1. Bird Of Prey
2. The Park
3. Time To Live
4. Lady In Black
5. High Priestess
6. Salisbury

In memoria di David Byron, scomparso il 28 febbraio 1985.

Roberto ‘Keledan’ Buonanno

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