Recensione: Salt and Rot
Secondo Ep in studio per gli statunitensi God Root, progetto musicale attiguo alla scena doom, capace però di spostarsi anche su territori inesplorati dello sperimentalismo sonoro. Eco viene scandita dalle classiche ritmiche del filone di appartenenza, onda che si propaga e che esplora l’orizzonte musicale dal passato di Black Sabbath al presente dello sludge.
Ammirando via via le sfumature del disco ci imbattiamo in ambientazioni di scuola Norvegese, parliamo di black e di post, in ogni sua più intima espressione, ma anche di noise.
Idealmente è come se attualizzassimo i suoni dei più vetusti Aeternus e li mescolassimo ai Neurosis. Brani enigmatici, per certi aspetti quasi psichedelici e tribali nel loro incostante e cacofonico intercedere.
In un antro buio della nostra coscienza ci vediamo raccolti a pensare a ciò che la vita e la società di oggi spesso ci mette di fronte, una mestizia fatta della consapevolezza che non sempre tutto può cambiare. In mezzo a ciò cerchiamo un luogo silenzioso in cui fermarci, quel posto in cui raccogliere le idee e sentire lo scorrere costante della vita. Il suono del corso d’acqua è l’unico ricordo di un’angoscia che si allontana, che solo sporadicamente si ripresenta come goccia che cade su di noi e, in tutta la sua drammaticità, scivola lungo il nostro tristo viso. ‘From Hounds to Silent Skies’ è l’esempio di come l’espressività core e sludge soggiaccia in ogni nota del disco, esplodendo poi in un’eruzione di fango che, d’improvviso, scompare in uno specchio d’acqua cristallina, dai riflessi distinti e dai colori limpidi. Attendiamo un full-length, perché i God Root riescono a stupirci e a trasmetterci passione incuriosendoci.
Stefano “Thiess” Santamaria