Recensione: Samskaras – Lithification
Lo stato canadese del Quebec sembra essere un’autentica fornace di death metallers dalle spiccate doti tecniche e dalla voglia di spaccare muri a suon di pesanti riff e ritmiche alquanto pericolose, se ascoltate con il volume alto in cuffia. Samskaras, termine che nella filosofia orientale simboleggia gli imprint lasciati nel subconscio da esperienze di vita passata, è il duo composto da Eric Burnet (chitarra, basso e voce) e Alex Dupras (batteria), giunti al terzo EP, puntualmente arrivato dopo appena un anno dal precedente Asunder. Gettatisi a capofitto nel girone del death metal tecnico, il compito di fare la voce grossa (e non intendo dire dietro al microfono) non è per nulla facile, dato che questo sembra essere divenuto un genere sempre più affollato e che, soprattutto nella regione del Canada francese, vanta illustri nomi quali Cryptopsy, Gorguts, Neuraxis, Quo Vadis e Despised Icon, giusto per menzionarne alcuni. Questo affollamento non rende la vita facile, ma il compatto EP che stiamo per ascoltare sembra voler dimostrare che con gli ingredienti giusti e l’incontenibile songwriting del signor Burnet, potremmo trovarci di fronte ad una band davvero interessante.
La furia di Lithification è distribuita in 4 tracce introdotte da Reconciliation, dove veniamo subito accolti da una raffica di riff masticati da Burnet e dalla precisione batteristica del drummer Alex Dupras, in grado di tenere banco alternando inesorabili blast beats, una doppia cassa indemoniata e passaggi più sincopati che rendono il brano abbastanza variegato per godere di luce propria – aspetto da non dare scontato in ambito così estremo. La successiva As Warriors è meno diretta, ma non per questo meno efficace. È costruita attorno ad una struttura ancora più articolata e che culmina nella perfetta armonia tra i due strumentisti, sino ad un break acustico, giusto il tempo di riprendere fiato prima di tornare a fare quello che i Samskaras sanno fare molto bene: offendere i nostri timpani a suon di colpi paragonabili a quelli dell’ascia della sorte. Più melodica e meno personale di quanto sentito sinora, Alignment viaggia su binari veloci, senza però snaturare troppo il sound della band, sempre carico di riffing profondi e una sezione ritmica che trascina verso il brano finale intitolato A Deux Mains (A due mani). Nel caso aveste mai dubitato che la delicata lingua francese potesse suonare così infuriata, è giunto il momento di ricredersi. Si corre e in maniera differente rispetto agli altri tre episodi dell’EP, il che non è un aspetto negativo, perché riesce a mostrare il lato meno riflessivo della band.
Non è facile giudicare un gruppo tramite venti minuti di musica, sono troppo pochi e non ti permettono di addentrarti realmente a fondo in quel messaggio che l’album vuole trasmettere. Lo sviluppo del sound, in questo caso, non si fa più concentrato, ma è come se fosse la prima parte di un’opera che avrebbe voluto (e probabilmente è così) evolvere ancora, sino a creare qualcosa di più personale di quello che in realtà abbiamo tra le mani. A livello tecnico non ci sono virtuosismi epocali o parti da farti uscire gli occhi dalle orbite, mentre a livello compositivo si sente che c’è qualcosa di molto valido, ma non è ancora stato tirato fuori del tutto da Burnet e Dupras, i quali mettono comunque in mostra un’ottima conoscenza musicale e una maturità compositiva di livello superiore a quello che solitamente ha una band non ancora sotto contratto. Per i fan accaniti del genere sarebbe più consono un giudizio tra il 70/75, ma non voglio sbilanciarmi troppo e nonostante la eccezionale qualità della registrazione, non ho avuto l’impressione di ascoltare qualcosa di nuovo, innovativo o magari addirittura unico, per cui il 68 mi sembra più idoneo. Adesso speriamo che il prossimo episodio non si faccia attendere troppo, perché ho fiducia in questi ragazzi e hanno le carte in regola per fare grandi cose.