Recensione: Sands Of Time
Il chitarrista Robin Vagh forma i Vagh nel settembre del 2000 col chiaro intento di unire in un progetto le sonorità a lui più care, vale a dire la NWoBHM, l’AOR e il Melodick Rock di Purple e Zeppelin, le band che lo influenzarono nel periodo in cui iniziò a metter mano sullo strumento.
La formula potrebbere essere azzeccata: canzoni brevi, accattivanti, dai ritornelli memorabili. In effetti rimane facilmente in testa il refrain di “Tricky”, opener dall’evidente nostalgia journeyana, mentre la seguente “Book Of Shadows” è un pezzo che si muove su una ritmica sabbathiana, pesante e ripetitiva, considerazioni che valgono anche per il riffing, in tutto il disco mai lontanamente vicino ai fasti del pomp dei connazionali Europe. Il sound delle chitarre infatti è in primo piano e non amalgamato con il resto degli strumenti, e potete immaginare quanto questo possa essere nocivo ad un gruppo che vorrebbe fare della melodia e degli arrangiamenti avvolgenti il suo marchio di fabbrica: si faccia caso alla title track, dove sulla strofa il riff di chitarra scompare per lasciare spazio a basso e batteria, dando quasi l’impressione che una fastidiosa zanzara si sia tolta di mezzo…
Eppure le basi compositive ci sarebbero tutte, visto che la sopra citata “Sands Of Time” è fatta di un ritornello cantabile e trascinante, che soffre – come tutto il disco – della produzione inadatta al genere.
I cori alla Survivor di “Blue Collar Proud” confermano quanto detto e ribadiscono su tutto il buon songwriting di Vagh e soci, evidenziando altri due aspetti: da un lato la calda voce di Jonas Blum sembra fatta apposta per il genere, connubio perfetto tra le vocals cristalline delle più osannate AOR band e quelle più aggressive tipiche dell’ Hard Rock e del metal; dall’altro è una piacevole sorpresa il gusto tutto settantiano delle tastiere di Tom Rask, forse l’anima purpleiana della band.
Dopo “Hypnotized”, per molti versi clone della precedente, ecco “Alison”, melensa ballad, quasi un rito, che le female vocals di Noomi Stragefors rendono inascoltabile per la loro “acidità” sonora che spesso sfocia in vere e proprie stonature.
“Coldblooded Lover” deve molto al debut degli Europe – quindi quelli più NWoBHM – ma perde molto sulle strofe e risulta complessivamente anonima, così come pure la successiva “Sleepwalking”, affidato al basso di Jan Ake Jonsson, vagamente dance anni ’80 e alle linee vocali dichiaratamente poppish.
Più dinamica e pomposa, “Born Yesterday” coinvolge con la sua coralità e convince per la ricchezza (finalmente!) degli arrangiamenti.
Il disco termina in crescendo con “In The Heat Of The Night”, sulla falsariga della precedente, confermando quanto di buono si era ottenuto in fatto di amalgama sonora.
In conclusione, penso che sia da ammirare la nostalgica scelta di riportare in auge i fasti dell’AOR, anche se forse non gradisco troppo l’accostamento alla NWoBHM. In ogni caso, c’è molto da lavorare dal punto di vista del sound e degli arrangiamenti, visto che il successo delle band più blasonate proveniva proprio da questi aspetti.
Tracklist:
- Tricky
- Book of Shadows
- Sands of Time
- Blue Collar Proud
- Hypnotized
- Alison
- Coldblooded Lover
- Sleepwalking
- Born Yesterday
- In the Heat of the Night