Recensione: Santityzed
Non sono ragazzetti di primissimo pelo i veneti Kranke’n’Haus, terzetto originario di Padova e composto dal chitarrista e vocalist Stefano Bissacco, da Luigi Dovigo al basso e alla seconda voce e da Gianluca Sausa alla batteria. Infatti, nonostante l’attuale gruppo sia stato fondato solamente nel 2009, i tre musicisti, come recita la biografia sul loro MySpace, sono attivi addirittura dagli anni ’90, con all’attivo varie esperienze in band underground della loro zona. Interessante leggere, inoltre, la genesi del nome scelto per la band: Kranke’n’Haus, vocabolo tedesco traducibile in italiano in “ospedale”: la band, dunque, come una sorta di clinica in cui curare (con la musica, ovviamente!) tutto ciò di negativo che prova, ogni giorno, a rovinare la nostra vita.
Dopo l’introduzione di rito è il caso di passare alla musica. E quella dei padovani, pur in presenza di qualche ingenuità di fondo e di una scarsa coesione a livello di proposta, è tutto sommato buona e gradevole da ascoltare. La title track “Santityzed” mixa con buona abilità un rifferama di estrazione più rock/hard rock con sonorità groove e con ritmiche e un cantato più vicini all’hardcore punk, influenza decisamente rilevante anche all’interno delle restanti sei canzoni in scaletta. La successiva “Final Chapter” si muove su coordinate non dissimili, pigiando forse maggiormente il pedale del groove, mentre “Rott ‘n’ Roll”, fatta eccezione per il cantato decisamente punk-oriented, strumentalmente strizza l’occhio allo street/rock ‘n’ roll vecchia maniera (come il titolo, lasciava, in effetti presupporre), mettendo in mostra anche una buona attitudine in fase solista da parte di Bissacco alla chitarra.
Con “Sociopatic Blues” i Kranke’n’Haus parrebbero omaggiare, nel riff posto in apertura, i Pantera e la loro mitica “Walk”, tuttavia lo sviluppo è decisamente differente e la canzone risulta più cupa e dimessa, eppure non per questo poco efficace, anche in virtù di una buona melodia. “Blood” è, dal canto suo, un hard rock molto robusto, un po’ Velvet Revolver ma con una vocalità impostata, questa volta, sui toni del growl, spesso anche con l’utilizzo di filtri: globalmente ci sono delle buone idee ma, forse, cinque minuti sono un po’ eccessivi per un brano di questo tipo.
Chiude la doppietta composta da “Rape Inside”, breve, veloce e aggressiva, forse la più thrashy del lotto (ma tutto sommato anche la meno riuscita), e da “Non C’è Memoria”, pezzo cantanto in italiano con voce iper-effettata di derivazione death, tale da rendere quasi inintelligibili le liriche, e sorretto da un coté strumentale, da parte sua, tutto sommato più leggero di quanto sembrava lecito attendersi.
A non convincere del tutto, ascoltando questo mini intitolato “Santytized”, non sono tanto i piccoli difetti “formali” (perdonabilissimi, visto il genere trattato) quanto piuttosto l’impressione di una mancanza di identità di fondo che porta i padovani a cimentarsi di volta in volta con il groove e con l’hard rock, oppure con il thrash/death old school e con l’hardcore punk senza, tuttavia, riuscire a dare alle sette canzoni proposte una reale unitarietà, un marchio di fabbrica che sia davvero loro. Qui e là si vedono riferimenti a gruppi famosi che paiono più che altro degli appigli “sicuri” cui aggrapparsi in caso di necessità, ma le canzoni, pur buone se prese singolarmente e globalmente in grado di reggersi sulle proprie gambe anche senza necessità di citazioni palesi, tendono a risultare un po’ slegate l’una dall’altra. Sicché, se eterogeneità e dinamismo sono di per loro qualità positive, alla lunga si sente la mancanza di un fil rouge in grado di reggere le fila.
Nulla di irreparabile, in ogni caso, si tratta di un esordio e, accanto a qualche buona idea e ad alcune canzoni meglio riuscite di altre (in particolare il terzetto di testa), vale altresì la pena citare la buona qualità di suoni ed esecuzione. La strada giusta è lì, a portata di plettro, si tratta solo di imboccarla.
Stefano Burini
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