Recensione: Savage Gods
Nuovo album per i Sonic Prophecy, compagine statunitense (loro sono di Salt LakeCity, Utah) che, a distanza di due anni dal precedente “Apocalyptic Promenade” pubblica “Savage Gods”. I nostri si sono formati esattamente dieci anni fa ma, in questo lasso di tempo relativamente breve, non sono certo stati con le mani in mano, dato che questo “Savage Gods” è il loro terzo album. Esattamente come i loro conterranei Visigoth (usciti anch’essi in questo periodo col loro secondo album), i Sonic Prophecy si dedicano ad un heavy metal classico e nerboruto, fatto di muscoli e stilettate d’acciaio cromato intervallate da melodie possenti e maestose, che guarda ai fasti del passato della musica pesante senza per questo limitarsi ad essi come unico faro; diversamente dai loro conterranei, però, pare che i Sonic Prophecy non siano stati in grado di bissare il tasso qualitativo dei loro precedenti lavori. Eh, sì, perché “Savage Gods” si rivela, in ultima analisi, un album “sanza ‘nfamia e sanza lodo”, come scrisse un tale più o meno sette secoli fa: nonostante si tratti, infatti, di un album molto ben suonato, con una produzione che bilancia ottimamente ogni strumento, carico di passione e in cui il gruppo si dimostra capace di creare atmosfere arroganti il giusto e poderose come un blocco di granito, devo ammettere di aver trovato qualche difficoltà a mantenere il mio interesse per tutta la sua durata. I miei problemi ad arrivare in fondo all’album sono stati largamente provocati, ritengo, da una certa monotonia di fondo che priva le canzoni che lo compongono di una propria personalità ben definibile, trasformando le suddette tracce (dieci, della durata media di sei minuti) in un moloch difficilmente districabile di riff granitici e linee melodiche maschie e arroganti. Il fatto, poi, che praticamente tutte le tracce dell’album seguano più o meno il medesimo canovaccio e una cadenza grossomodo simile – i Sonic Prophecy sembrano prediligere il mid-tempo marziale e maligno, carico di power chords e riff “fletti-bicipiti“, intervallato da sporadiche impennate e spruzzato solo di tanto in tanto da linee melodiche più trionfali – non fa che rincarare la dose, abbattendo in fin dei conti la varietà della musica proposta col conseguente abbassamento del tasso di longevità del loro lavoro. A complicare il tutto, devo dire che anche la resa vocale di Shane Provstgaard non mi ha fatto impazzire: buona quando si tratta di esprimere malignità con i suoi toni più acidi e abrasivi, non altrettanto quando si abbandona al cantato stentoreo e squillante, che in alcune occasioni riesce addirittura ad appiattire le altrimenti solide architetture strumentali erette dai suoi colleghi. Durante tutto l’ascolto di “Savage Gods” si aspetta un guizzo, una prova di forza, una melodia memorabile, un’intuizione o un twist improvviso che ribalti la prospettiva di una canzone facendo saltare l’ascoltatore dalla sedia: attesa, purtroppo, vana, dato che il guizzo non arriva mai o, se arriva, non viene sfruttato appieno. A onor del vero sì, alcuni spunti interessanti ci sono, soprattutto nella seconda metà dell’album (si veda ad esempio la rapida e guerrafondaia “Iron Clad Heart”, la più carica di pathos “A Prayer Before Battle”, o anche la conclusiva “Chasing the Horizon”, le tracce che più mi hanno colpito), ma nella maggior parte dei casi si tratta di schegge impazzite e sfuggenti che non trovano terreno fertile su cui attecchire, perdendosi quindi nel mare di tracce ripetitive, riff fin troppo statici e cori a tratti sguaiati. Peccato, perché a voler guardare i nostri, le qualità per creare ottimi album, le hanno anche: alla luce di quanto esposto, pertanto, non mi sembra giusto stroncare del tutto questo “Savage Gods” dato che, con l’andar del tempo, l’appeal dell’album tende a migliorare, seppur non tanto da fargli superare una sufficienza risicata. Consideriamolo un incidente di percorso e che sia finita lì, nella speranzosa attesa del loro prossimo lavoro.