Recensione: Scarecrowd
Dopo averci provato con risultati molto modesti nel 2011, torna in pista Fabrizio Fulco con i suoi Lost Reflection, band dalla genesi travagliata che le cronache raccontano aver avuto origine qualche tempo prima della partenza dello stesso Fulco per gli States, chiamato a prender parte al solo project di Ben Jackson (ascia dei monumentali Crimson Glory).
“Florida”, il disco uscito giusto tre anni fa sempre per SG Records, si era rivelato un mezzo fallimento: molle, impersonale, prodotto in modo alquanto approssimativo, privo di pezzi di spicco ed incapace di andare oltre un’immagine ingessata degli stereotipi più banali dell’heavy rock ottantiano.
Che, detto per chiarezza, sono sempre un bel sentire. Non però, quando l’appiattimento su cliché ripetitivi si manifesta a livelli da sbadiglio.
Diciamoci la verità. Non era difficile fare qualcosa di più appetibile: dopo tutto, bastava mettere un minimo a regime i suoni in modo da conferire un miglior appeal alle canzoni e raffinare il songwriting con un paio di idee interessanti. Lasciar perdere le ininterrotte banalità del primo capitolo e buttare sul pentagramma un po’ più di grinta insieme a qualche hookline che potesse – finalmente – vincere la prova della scorrevolezza.
Un progetto che, se non ricostruito da zero, necessitava insomma di un bel “pacco” di miglioramenti per rendersi competitivo in uno scenario come quello dell’heavy rock attuale, in cui la sfida per ottenere spazio è arcigna e la concorrenza ha letteralmente il coltello tra i denti.
Il “lifting” stilistico applicato con “Scarecrowd”, figlio diretto dell’esperienza – ne siamo certi – poco gratificante del predecessore, arriva dunque a garantire alcuni vitali migliorie, senza le quali, presumibilmente, non sarebbe nemmeno valsa la pena rimettersi in gioco.
Smessi, infatti, i panni dei nostalgici del Sunset Boulevard Losangelino, Fulco e compari volgono lo sguardo ad una latitudine sempre remota ma di certo più periferica, andando a cercare alcuni raffronti con l’imperante trend rockettaro del nord europa, quello che con Crashdiet e Crazy Lixx ha – negli ultimi anni – piazzato dei solidi punti fermi nel modo di fare hard rock con un particolare approccio “glam”, addizionato, perché no, pure con un sulfureo retrogusto horror.
La missione può dirsi compiuta con discreto successo: non siamo ancora in grado di sdoganare il progetto del musicista tricolore verso vette di grande ambizione, ma la fruibilità dei brani e qualche idea per nulla malvagia, ora paiono finalmente affiorare.
Di certo, non saranno pezzi come la title track “Sacrecrowd” o la finale “Armageddon” – eccessivamente lunghe, monotone e ripetitive – a risollevare le sorti dei Lost Reflection, quanto piuttosto, veloci e dirette sventagliate hard rock quali “Never Enough”, “Hail To Rock” e “No One”, episodi parecchio semplici, essenziali, dal significativo taglio glam rock (ed un po’ goticheggiante, alla 69 Eyes) che non può che rendersi divertente e ben gradito all’orecchio.
La voce, un po’ sorniona e strisciante di Fulco, si dimostra piuttosto versatile nel tentativo di interpretare in modo adeguato il mood delle canzoni, ma è tuttavia il lavoro di chitarra dello stesso Fulco e del compagno d’arme Piero Sorrenti il fattore realmente incisivo dell’intero cd. Nulla in realtà, che abbia a che vedere con virtuosismi o passaggi arditi. Una buona sostanza, riff ritmicamente solidi di radice glam rock ed un suono grintoso e ruggente: quello che serve.
Il tentativo di variare il più possibile stati d’animo ed ambientazioni – per quanto lecito – è poi un altro fattore evidente che contribuisce ad ottenere una fruibilità dal potenziale più congruo.
Si passa così dall’hard rock un po’ darkettone di “The Enemy You Know”, al glam “swedish style” di “Never Enough” e “Faith Or Fear” (due canzoncine in scia ai primi Crazy Lixx), per poi raccogliere qualche suggestione “australiana” (Ac/Dc?) nella già citata “Hail To Rock”, il cui riff portante pare un lascito dal ciondolante “Stiff Upper Lip”.
Per finire con l’alone più eighties-style di “Rock n’Roll Nation”, pezzo che non brilla in ogni modo per particolare incisività.
Ci sono insomma, i motivi per guardare al progetto Lost Reflection con un pizzico di fiducia in più.
Nulla di grandioso o superiore, s’intenda, ma comunque un album – al netto di qualche ingenuità ancora ben chiara, nel songwriting come nei testi – che si propone fornito di quei quattro-cinque brani piacevoli che riescono a rendersi familiari all’orecchio, garantendo una discreta resa in termini di semplice piacere d’ascolto. Oltre ad una produzione, finalmente, dignitosa e degna di un disco inciso nel 2014.
Vista gli esiti dell’esordio, onestamente, un gran bel passo in avanti.
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