Recensione: Scorpion Child

Di Lorena Landini - 21 Novembre 2013 - 20:16
Scorpion Child
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2013
Nazione:
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81

Arrivano da Austin (Texas): poderosi, convinti e sicuri di sé. Con questo biglietto da visita gli Scorpion Child si presentano al loro debutto con l’album omonimo, uscito per l’etichetta indipendente Nuclear Blast.

La storia del gruppo comincia nel 2006, e con il consueto avvicendarsi di diversi elementi giunge dopo qualche cambio alla formazione attuale: Aryn Jonathan Black (Voce), Shaun Diettrick Avants (Basso), Christopher Jay Cowart (chitarra solista), Shawn Paul Alvear (batteria), Tom “The Mole” Frank (chitarra ritmica).
Lo stile dell’album è magnetico e totalmente originale. Sono “loro” e non sono come nessuno: diversi da tutti, ispirati a molti, ma innovativi. Non copiano nulla.
Molto seventies ma con una fantasia dirompente: il suono non sembra mai “roba vecchia e già sentita” ed evidenzia un proprio timbro distintivo.
Domina su tutto la voce di Aryn Jonathan Black: un po’ trascinata, un po’ roca, un po’ Zeppelin, sempre e comunque all’altezza delle melodie.

Pur essendo all’esordio insomma, gli Scorpion Child evidenziano una qualità di base elevatissima.
Per scoprirlo basta prestare orecchio ai brani in tracklist: “Kings Highway” ad esempio, (americana fino all’osso) ha un ritmo cadenzato all’ossessione, cantato lento e senza fretta, come su una lunga autostrada americana. Il pezzo più riuscito dell’intero album, per efficacia e facilità di memorizzazione.
Una suggestione che continua in “Polygon of Eyes”, passaggio in cui un attacco molto potente dà vita a tutt’altro ritmo, pur se ancora una volta cadenzato, spostandosi su di un 4/4 che si alterna a momenti di predominanza di batteria pesante.
Si continua con “The secret spot” e “Salvation Slave”, puro hard rock con chitarre incalzanti e melodie di ispirazione Zeppelin. Scorre veloce “Liquor”, e accompagna morbidamente alla immancabile ballad, “Antioch”.
A dire il vero tutti i pezzi sono così armonicamente allineati, che non si avverte mai uno stacco brusco tra uno e l’altro.

Si riprende a correre veloci con “In the arm of ecstasy”, in cui la voce di Black si stende sui potenti riff. Serratissima “Paradigm”, che chiude il cerchio hard rock per lasciare spazio a una conclusione attenuata come “Red blood”, che, ci perdoneranno i non “amanti”, ma ricorda vagamente i nostrani Afterhours (sacrilegio!).

Quando l’album finisce ci rimani quasi male, perché ti eri già abituato a quelle sonorità ispirate al miglior rock anni ‘70 proiettato nella contemporaneità.
Ma le sorprese non sono ancora terminate, con un inciso acustico dopo ben 5 minuti di silenzio, che pare quasi un’altra traccia a se,  registrata quasu per sbaglio. Una chicca per salutarci.

Gli Scorpion Child sono sufficientemente oscuri, musicalmente robusti, intensi, elettronici, senza paura di andare oltre le più scontate influenze. Per tutte queste ragioni colpiscono, per il piglio deciso e lo stile inedito.

Un disco da ascoltare insomma…

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