Recensione: Scrolls of War

Di Stefano Usardi - 31 Ottobre 2024 - 10:00
Scrolls of War
Etichetta: Aural Music
Genere: Altro  Avantgarde 
Anno: 2024
Nazione:
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80

I faentini Ottone Pesante – usciti sul mercato pochi giorni fa col loro quinto album, “Scrolls of War” – rappresentano una sorta di unicum nel panorama metal odierno. La ragione è presto detta: il gruppo si compone di tromba, trombone e batteria, con i quali i nostri portano avanti un discorso musicale che potremmo definire di prog brass. La musica del terzetto fonde metal, progressive, jazz e avantgarde sfruttando la carica evocativa degli ottoni e le strutture di una batteria puntuale e precisa per creare un ibrido estraniante e dall’intensissima carica evocativa, più una colonna sonora che un album musicale canonico, ma che risulta perfetto per il concept nella mente del terzetto. “Scrolls of War”, infatti, costituisce il primo capitolo di una trilogia riguardante l’evoluzione della musica di ottoni, partendo dal loro ruolo durante le battaglie dall’età del bronzo in poi. Un progetto ambizioso, quello dei romagnoli, ma che proprio per questo viene preso di petto e sviluppato partendo da fonti di un certo calibro: i rotoli del primo secolo trovati a Qumran alla fine degli anni quaranta e che, se ve lo foste chiesto, danno il titolo all’album. La relazione tra guerra e ottoni viene condensata, in “Scrolls of War”, in sette tracce di musica strumentale (i segmenti cantati si contano sulle dita di una mano) che, seppur prive di alcuni degli strumenti canonici del metal, suonano comunque dense, pesanti, abili a trasmettere tanto la tensione carica di attesa prima della battaglia quanto la foga cacofonica degli scontri veri e propri, passando per la desolazione opprimente al termine dello scontro. Le notevoli capacità del trio e gli abili giochi di riverberi e distorsioni sonore (si veda ad esempio l’effetto–chitarra del primo minuto di “Battle of Qadesh” o il ronzio da motosega di “Slaughter of the Slains”, per dirne due) tratteggiano paesaggi riarsi, cupi, senza tempo, catapultando l’ascoltatore dentro e fuori dai campi di battaglia di ogni epoca. Tre quarti d’ora abbondanti durante i quali il trio scolpisce atmosfere e stati d’animo di volta in volta complementari o dissonanti, tessendo un tappeto sonoro decisamente ostico per un orecchio non allenato che a seconda dei casi si fa inquieto, oppressivo, angosciante, frenetico, teso e malinconico.

Le ostilità iniziano con “Late Bronze Age Collapse”, in cui ottoni e batteria sostengono i synth di Shane Embury per creare un crescendo alienante e claustrofobico, estenuante nella sua insistita circolarità e punteggiato di derive industrial e squarci solo lievemente meno angusti. “Sons of Darkness Agains Sons of Shit” prosegue grossomodo sullo stesso terreno, virando verso uno spettro di soluzioni meno ostili e vagamente contemplative. I ritmi si mantengono tribali, ipnotici, ostinati, salvo poi pigiare sull’acceleratore con l’arrivo della voce che accompagna a un climax vorticoso ed assillante. “Men Kill, Children Die” parte cupa, lenta, spazzata dal vociare del vento e da trombe lontane che preannunciano il fronteggiarsi delle armate. Di tanto in tanto, qualche lampo dalla carica drammatica (che riecheggia certe colonne sonore da kolossal anni ’50) si fa largo nel tappeto sonoro cupo e dimesso, quasi ambient, del pezzo, per poi esplodere nell’avanzata solenne e lugubre che si appropria della seconda parte, una processione funerea che adombra ancor di più i toni disperati della traccia. A questo punto arriva “Teruwah” a suonare la carica: una batteria galoppante e bellicosa sostiene melodie sferzanti, agguerrite, per un pezzo che, come si evince dal nome (Teruah potrebbe essere tradotto con urlo di guerra), catapulta nel cuore caotico e cacofonico della battaglia. Il percussionismo che simula il cozzare delle lame e le rapide sferzate dal profumo eroico tengono alta l’attenzione, sostenuti da qualche passaggio più nervoso, mentre la repentina interruzione delle ostilità apre a un segmento più guardingo, teso, che sfuma la tensione accumulata mentre le trombe di guerra si allontanano. “Battle of Qadesh” parte in modo più tranquillo, facendo crescere l’attesa pian piano. A donare un ulteriore livello arriva la voce di Lili Refrain, il cui incipit acido ed effettato si scioglie poi in uno sviluppo pulito e dal carattere sacrale, esotico, ottimamente sostenuto dal crescendo strumentale il cui profumo sciamanico raggiunge il climax e fugge appena prima del finale. “Slaughter of the Slains” torna al nervosismo industriale che aveva fatto capolino all’inizio dell’album sviluppandosi su un sottofondo magmatico, stridente, che monta sempre più per esplodere poi nella seconda parte, più frenetica. Qui i ritmi si mantengono spediti, con le rapide incursioni di voce effettata a donare ulteriore aggressività al tutto. Il finale disegna un ultimo, breve crescendo, per poi spegnersi all’improvviso e cedere il passo alla conclusiva “Seven”. L’andamento si sviluppa pian piano, creando una certa tensione screziata, però, da note nuovamente guardinghe e vagamente sghembe, per chiudersi nel finale fintamente solenne colorato, anche qui, da vaghe note d’allarme.

Scrolls of War” non è un lavoro per tutti, questo va detto. La proposta dei faentini è di certo piuttosto elitaria e difficile da assimilare per un ascoltatore distratto o abituato a qualcosa di più convenzionale, e potrebbe risultare impegnativa anche per chi è alla ricerca di qualcosa di più ricercato. Ciò detto, non posso negare che il risultato ottenuto dagli Ottone Pesante sia decisamente notevole: i nostri attingono da generi nominalmente inconciliabili (sia metal che non), piegandoli per adattarli alla propria visione personale ma tenendo bene in mente il valore narrativo dei brani composti. Consigliatissimo.

Piccola nota a margine: in questo periodo mi sto rileggendo l’Iliade, inutile dire che ho trovato una perfetta colonna sonora per la lettura.

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