Recensione: Seasons of Desolation
Torno a occuparmi, a pochi mesi di distanza, dei torinesi Enisum. Tale breve periodo non è dovuto tanto alla prolificità, comunque notevole, dell’ensamble piemontese, quanto al mio ritardo nel notare “Arpitanian Lands“, album più che discreto e dotato di parecchie frecce al suo arco.
Sia come sia, a meno di due anni dall’uscita di “Arpitanian Lands”, gli Enisum tornano con un nuovo full-length, con un titolo più normale (in termini squisitamente black) e meno ‘esotico’: “Seasons of Desolation”. Quinto album per i nostri, ma anche la terza release in 4 anni.
A un’occhiata superficiale, in effetti, non pare che ci sia una grossa differenza tra quanto troviamo nei solchi di “Season of Desolation” e di “Arpitanian Lands”. Un black metal atmosferico, carico di riff rocciosi eppure estremamente lenti e malinconici. Cambi di ritmo non vertiginosi ma piuttosto frequenti, molto ben dosati, tra atmosfere lente e maestose, da un lato, e, dall’altro, break cupi e rarefatti.
Il che produce un pugno (in realtà 9) di canzoni discreti, su cui la mano dei nostri è ben visibile. Pezzi come la opener “Autumn melancholy”, “Road to my Home” o la brevilinea “Snow storm” lasciano inalterati tutti gli stilemi tipici del quartetto. Ma, bisogna ammetterlo, a questo album manca qualcosa, che invece si percepiva assai bene nei predecessori. È inutile girarci troppoattorno, confrontare questo album con quanto prodotto due anni fa mette in luce alcuni limiti, al di là di una notevole continuità stilistica e di una maggior predilezione per le atmosfere cupe.
O meglio, quest’album, di limiti, ne mostra uno solo. Pur essendo ben fatto, con ogni riff al suo posto, “Season of Desolation” si perde in canzoni che sono troppo lineari per essere così lunghe. O troppo simili per essere così tante. E se la cosa non balza all’occhio nei singoli episodi, risulta evidente dopo aver ascoltato tutta l’ora su cui il platter si snoda. Risulta poi lampante quando gli Enisum calano sulla tavola l’unico pezzo veramente ispirato del lotto, ovvero “Dead star”. Un pezzo che sì dura 8 minuti e mezzo ma, sarà per l’indovinatissima linea melodica femminile, conquista senza esitazioni e risplende sul grigiore (sia in termini di tonalità sonora che di freschezza compositiva) circostante.
In sostanza, quest’album probabilmente paga il confronto con i suoi predecessori, sebbene la linea dei nostri non abbia subito particolari derive stilistiche. Eppure, ascolti alla mano, c’è qualcosa in questo “Season of desolation” che manca. Sia ben chiaro, si tratta di un disco discreto. Eppure, non riesce a creare le atmosfere eteree e sorprese a cui i piemontesi ci hanno abituato. Un disco che, pur essendo a tutti gli effetti ben fatto, non decolla veramente se non in un paio di ottimi passaggi. Attendiamo nuovi sviluppi.