Recensione: Second Helping

Di Abbadon - 29 Novembre 2004 - 0:00
Second Helping
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Anno: 1974
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94

Dopo il grande successo del loro primo disco (sia a livello di classifiche, Top 30 di Billboard, che nell’essenza del disco stesso, capace di rivoluzionare e riplasmare un intero genere musicale quale il Southern Rock), i Lynyrd Skynyrd provano a ripetersi. Infatti, solo sette mesi dopo il seminale “Pronounced Leh-nerd Skin-nerd”, sulle bancarelle dei negozi del 1974 iniziano a spuntare le copie della seconda creatura di Van Zant e compari, “Second Helping”. Forte di una strada abbastanza spianata dal predecessore ma anche di una qualità mostruosa, Second diventa un grandissimo successo, anche grazie ad alcune sue song che diverranno dei veri e propri manifesti. Dell’album (che si piazzerà al numero 12 della billboard, con 45 settimane di presenza) in sé non c’è molto da dire; come già scritto in precedenza la qualità è semplicemente mostruosa. La formula coi 3 chitarristi (nell’occasione Collins, Rossington e Ed King, non c’è più l’altro Rossington, George) si ripete con risultati a dir poco strabilianti nella loro semplice genialità, e guida uno squadrone di strumentisti che riescono a fondersi (anche grazie al sapiente lavoro del loro produttore e scopritore Al Kooper) in un tutt’uno magico e sensazionale. Fin troppo espliciti i contenuti del disco, vere e proprie dichiarazioni d’amore verso le terre del sud, la libertà, la natura e tutti quei valori che sarebbero divenuti componenti cardine del rock sudista. Questi elementi, oltre che dal suonato, vengono messi in risalto (anzi, probabilmente più che dal suonato) dalla qualità delle liriche, calibrate, intelligenti e soprattutto sincere. Le song sono “solo” 8 (11 nel remaster) per circa 35 minuti di durata, che però sembrano 350 per quanto riescono a coinvolgere. La prima song a venirci incontro direi che non ha bisogno di troppe presentazioni. Trattasi infatti della monolitica “Sweet Home Alabama”, una delle canzoni simbolo del rock americano e forse la song più rappresentativa dell’intero movimento. Le melodie spensierate ma decise, la voglia di indipendenza e l’amore verso le proprie terre, tutto viene messo sul piatto all’ennesima potenza, per una hit terrificante, l’unica che fece vedere a Ronnie (che canta da Dio) e compagni la Top Ten della classica delle song (cosa mai capitata neppure a Free Bird). Degno di nota anche il pianoforte (suonato da Collins), che qui come altrove viene utilizzato per smussare le ritmiche e dare nel contempo un grande fascino al risultato finale. Non vado oltre perché credo che questa song la conoscano anche i sassi, e passo dunque alla seconda, meno famosa ma non per questo meno bella, “I Need You”. Aperto da una splendida melodia e da un buon lavoro batteristico (semplicissimo, ma perfetto per creare l’effetto attesa) del fedele Bob Burns, questo lento ricco di sentimento scorre come un pacato fiume nelle nostre orecchie. Già detto del toccante lavoro di chitarra, non si può non dare punti a un coro che riesce da infondere grandissimo risalto al ritornello, e al languido e melenso assolo, ciliegina sulla torta del secondo (ma non ultimo) gioiello del platter. Platter che prosegue con la frizzante “Don’t ask me no Questions”, vero concentrato di energia positiva. Forse la track dove le varie parti si fondono meglio in assoluto, Don’t Ask ha secondo me il suo punto di forza nel sapiente uso di strumenti non rock ma tipicamente del sud quali tromba e sassofono, che allietano i principali passaggi con una precisione incredibile. Dopo tanta atmosfera la band ritiene giusto ringraziare la sua casa discografica, la MCA, delle opportunità concesse loro, e lo fa con una canzone che diventerà una delle sue più utilizzate dal vivo, la grande “Working For MCA”. Molto più hard rispetto alle precedenti, e dal testo tanto vero quanto spiritoso, working mette forse in evidenza per la prima volta il gran lavoro del bassista Leon Wilkeson, che qui dirige perfettamente la sezione ritmica assieme al già citato Burns. Anche il resto però non scherza, una vera tirata fra riff e assoli degni di quello per cui furono usati poi sul palco, ovvero spezzare la tensione e galvanizzare il pubblico. Giro di boa per arrivare alla superba “The Ballad of Curtis Loew”,  che puzza a dir poco di terra bruciata dal sole, di blues, e anche di razzismo, che la band denuncia abbastanza chiaramente nelle liriche, toccanti così come la strabiliante melodia (e il cantato, interpretato magistralmente), fattori che fanno di questa ballata il mio pezzo preferito su Second Helping. Dopo un lavoro struggente si passa a uno allegro, quale è l’eccellente e blueseggiante “Swamp Music”, ennesimo manifesto di attaccamento alle radici da parte della band. Non c’è molto da dire, se non dello splendido intreccio fra i riff chitarristici, che creano una trama notevole e, nei passaggi topici (vedi assolo) fanno letteralmente saltare dalla sedia, causa voglia di ballare. Di classe anche l’attacco a “The Needle and the Spoon”, traccia molto simile a Sweet Home Alabama per costruzione delle strofe. Ovviamente questa è garanzia di qualità, ma non bisogna fermarsi qui perché la canzone presenta anche delle diversità, come si può notare nell’enfatizzato ritornello e nel testo, contrappasso rispetto alla musica, basta leggerlo per capire e trovarsi spaesati. L’album, così come si era aperto alla grande, si chiude altrettanto bene con la rockeggiante e possente “Call me the Breeze”, che sprizza a dir poco elettricità da tutti i pori, complice un assolo di piano semplicemente da pelle d’oca (ma tutto è da pelle d’oca beninteso). Finisce dunque all’insegna della più sfrenata allegria questo Second Helping, che si è chiaramente dimostrato una colonna imprescindibile del rock made in USA. Sinceramente io preferisco l’esordio, con le varie “Simple Man”, “Free Bird”, “Tuesday’s Gone” eccetera, oggettivamente però bisogna dire che siamo di fronte a una sfida titanica, che potrebbe vedere ciascuno dei due dischi vincere per un nonnulla. Eh si, perché i Lynyrd secondo me arrivano al livello di competere solo con loro stessi, in uno dei generi che più mi piacciono. Se avete letto la recensione lo capite da voi.

Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :
1) Sweet home Alabama
2) I need you
3) Don’t ask me no Questions
4) Workin’ for MCA
5) The Ballad of Curtis Loew
6) Swamp Music
7) The Needle and the Spoon
8) Call me the Breeze
Bonus Tracks nel Remaster
9) Don’t ask me Questions (alternate)
10) I was right or wrong
11) Take your Time
 

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