Recensione: Second Nature

Di Roberto Gelmi - 22 Ottobre 2014 - 14:00
Second Nature
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2014
Nazione:
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80

A due anni e mezzo dal disco di debutto (che s’è piazzato, appena uscito, al nono posto della Billboard’s Hard Rock chart) e dopo tanto di live-dvd, i Flying Colors pubblicano il loro secondo album, questa volta autoprodotto, con Rich Mouser al missaggio.
Il concetto di “seconda natura” è di casa nella filosofia occidentale, da Aristotele a Leopardi, ma questo era anche, più banalmente, uno dei moniker papabili per il grandioso supergruppo oggi noto come Transatlantic, di cui Mike Portnoy e Neal Morse sono i mastermind.
Se il platter del 2012 si rivelò di pregevole fattura (tanto più che aveva il vantaggio sorpresa), Second Nature propone la band americana ormai forte di una existing chemistry (a detta dell’ex-Dream Theater) e a suo agio nel proporre buone idee, all’insegna della passione per la musica intesa come fine, non come mezzo.
L’artwork è invitante e curato, ci sono ospiti a impreziosire la scaletta, non manca che l’ascolto dei sessanta minuti dell’album.

L’avvio è dimesso ma positivo, merito della lunga “Open Up Your Eyes”, che vince il confronto con l’opener del self-titled, “Blue Ocean”. Le tastiere di Morse e il drumwork portnoyano sembrano riproporre il sound dei dischi solisti dell’ex-Spock’s Beard, non fosse per la presenza costante del sempre ispirato Dave LaRue. Dopo quattro minuti strumentali, la voce suadente di McPherson irrompe in pianissimo: il singer è tra i mattatori del gruppo, anche se non vanta l’esperienza degl’illustri colleghi chiamati a raccolta. Ottime le cadenze prog. all’inizio del sesto minuto, così i momenti trascendentali all’ottavo, con tastiere imponenti e metafisiche. La giovane band rivela, dunque, un suo lato inedito e si arricchisce d’eclettismo. Il finale non è da meno, con ottime linee pulsanti di basso e fuochi d’artificio di Portnoy.
Prima traccia memorabile, però il disco, lo anticipiamo, non resta costantemente su questi livelli d’eccellenza.
Un LaRue prepotente dà avvio a “Mask Machine”, brano che contiene il migliore assolo del disco, opera del monumento vivente Steve Morse: la sua plettrata è pulita, la tecnica centellinata, la magia sprigionata incalcolabile. Pregevole anche la sezione in crescendo nella seconda parte del pezzo, con Neal Morse sugli scudi e un sottofondo corale.
Bombs Away” è un brano catchy con un guitarwork ammiccante e retrò; siamo sui livelli di “Shoulda Coulda Woulda”, tra i pezzi con più personalità nel disco di debutto, e McPherson canta in modo encomiabile. Dopo un bell’assolo di Steve Morse, le melodia diviene fatata e un filo triste, poi tornano i synth giocosi di Neal Morse.
In un continuo alternarsi d’emozioni, è la volta della mesta ballad, “The Fury of My Love”, con McPherson interprete di linee vocali in falsetto di sicuro impatto. Brano dei più vispi in scaletta, “A Place in Your World”, invece, pecca per troppo entusiasmo, ma il refrain è più che orecchiabile; sulle strofe, un rodato Neal Morse al microfono è d’applausi. Canta anche Portnoy, a metà della traccia, ma la sua performance è da dimenticare (quando lo capirà?!).
Un fill ficcante di batteria introduce “Lost Without You”, minuti tipicamente Flying Colors, distensivi nella loro apparente sprezzatura. Sembra, infatti, che tutto scorra fluentemente in modo naturale, laddove il giusto spazio che si ritagliano gli strumentisti (virtuosi sì, ma non spocchiosi) non è cosa da poco e tutto torna come in un mosaico. Steve Morse con una sola scala discendente, su ritmi tutt’altro che sostenuti, regala emozioni, così Neal al pianoforte e come spalla alla voce calda di McPherson.
Prima della suite finale troviamo due pezzi dal minutaggio medio-lungo. “One Love Forever” incede desultoria, tra abbellimenti araboidi e arrangiamenti cozy con synth d’armonica. All’inizio del quinto minuto Neal Morse azzarda un acuto troppo sguaiato (da dimenticare), per il resto si tratta di un brano passabile, ma troppo lungo.
Da pelle d’oca i primi secondi di “Peaceful Harbor”: acuti soffusi e sonorità à la Mike Oldfield. Steve Morse subentra verso il terzo minuto e tutto s’illumina di colpo. Memorabile, nel finale, l’apporto gospel delle The McCrary Sisters, che ci sia lo zampino del Portnoy di Scenes From A Memory?
L’ultima traccia in scaletta è ambiziosa già dal titolo, tuttavia “Cosmic Symphony” inizia compassata. A metà del secondo minuto LaRue sciorina un highlight di basso da intenditori; dopo un finto stacco al min. 3:16 da segnalare, altresì, alcune finezze di Portnoy. Si arriva a metà brano un po’ stanchi, la canzone non decolla e nemmeno lo sweep picking di Steve Morse riesce ad animare il brano. Un finale al chiaro di luna, dunque, che non giova all’economia dell’album nel suo complesso e fa rimpiangere l’ottima “Infinite Fire” in chiusura del self-titled, tanto più che, in questo caso, era difficile concepire un migliore epilogo di “Peaceful Harbor”.

In definitiva un disco più coeso rispetto al debutto del 2012, ma ancora con alcune concessioni al pleonasmo. La forza dei Flying Colors resta il loro eclettismo e gli equilibrati cambi di atmosfera, nella cornice totalizzante e irenica di un anticonformismo gioioso.

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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