Recensione: Second World

Di Vittorio Cafiero - 16 Giugno 2012 - 0:00
Second World
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Anno: 2012
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90

 

“One of the finest quality doom acts around these days!” (ANDERS NYSTRÖM, KATATONIA)

“Second World is definitely one of the best heavy doom style albums I ever mixed in my career so far!” (DAN SWANÖ)


 
Raramente gli slogan pubblicitari sono affidabili in campo musicale. Quante volte abbiamo sentito descrivere album in uscita come i migliori, ovvero come i più “heavy” e completi mai composti dalle band in questione? Ma se, per una volta, a parlare sono i mostri sacri della scena estrema europea e l’oggetto delle esternazioni una band ancora relativamente underground, senza una major alle spalle e se, ancora di più, il gruppo non proviene dalle solite lande scandinave ma dalla più sorniona (almeno a livello metal) Città Eterna, allora vale la pena tenere in considerazione certe affermazioni. Tanto più che, una volta tanto, si dimostrano quanto mai affidablili.

I The Foreshadowing con Second World raggiungono il traguardo del terzo lavoro sulla lunga distanza – secondo per la tedesca Cyclone Empire – dopo gli acclamati (da appassionati e critica) Days Of Nothing del 2007 e Oionos del 2010. Senza tanti preamboli, ci troviamo certamente davanti ad una delle migliori realtà italiane uscite negli ultimi anni, che, in modo inatteso ma senza dubbio meritato, è riuscita a imporsi all’attenzione della scena internazionale. Se con Days Of Nothing i Romani (in gran parte nomi noti della scena locale, vedi alla voce Grimness, How Like A Winter, Klimt 1918) erano riusciti a dare alle stampe un gioiello di gothic metal tanto classico quanto personale, con Oionos era stata palese l’evoluzione verso un sound più oscuro e opprimente, tanto da rientrare di diritto nell’ambito del doom metal. Oggi Second World sembra in un certo senso riassumere le caratteristiche dei due predecessori, rimanendo sì pesante ma non disdegnando aperture melodiche e soluzioni nuove che lo rendono più dinamico, senza per questo snaturare il marchio di fabbrica.
Tale percorso stilistico (che si invita a scoprire in ordine cronologico) non può e non deve essere slegato dal contenuto concettuale, elemento fondamentale per comprendere al meglio il messaggio The Foreshadowing. L’esordio era una compassata e pessimistica descrizione del vivere moderno, orientato all’insensata routine produrre/consumare, senza riguardo alcuno per il pianeta che ci ospita; Oionos, invece, descriveva la Fine, l’Apocalisse di tale realtà, in modo tanto nichilista quanto poetico, evitando ridicole rappresentazioni di morte e distruzione e, al contrario, allundendo ermeticamente a scenari desolati e opprimenti. Apocalisse intesa come fine di tutto, fine del mondo causata dall’uomo stesso e dalla sua follia autodistruttiva. L’olocausto atomico, la strada senza ritorno, l’eterno inverno nucleare. Nessuna immagine forte, solo desolazione e disperazione, senza nessuna luce all’orizzonte.

Second World, può suonare come la rinascita, la seconda opportunità per i Sopravvissuti (qui magnificamente ritratti nella copertina ad opera del “solito” Travis Smith), i quali, nonostante tutto, devono e vogliono andare avanti. Da ciò, qualche timido bagliore di luce all’orizzonte che, in alcuni frangenti, si riverserà nelle composizioni stesse. Prendiamo l’opener Havoc (i.e. “devastazione”), che forse meglio rappresenta tale dualismo: vento e crepitio di fiamme coesistono con una natura che deve rinascere, qui rappresentata dallo scorrere di un ruscello: doom moderno, controllato ma deciso, in certi frangenti regale che si apre in stacchi melodici quasi inattesi, perfettamente arrangiati. Novità, il coro gregoriano finale che in modo quasi blasfemo ma realistico descrive la realtà delle cose (“…Gloria in excelsis Deo et in Terra…Infernum…”). Subito si nota l’eccellente lavoro a livello di suoni, con la produzione a cura della band stessa coadiuvata da fidi collaboratori, tra i quali Giuseppe Orlando e Massimiliano Pagliuso dei Novembre, scelte che trovano il loro climax nel perfetto mixaggio a cura del sopracitato Dan Swanö. E se la successiva Outcast, più ritmata, è sorretta da un fraseggio di chitarra in sottofondo che può ricordare lo stile di Greg Mackintosh dei Paradise Lost, con The Forsaken Son si assapora forse il lato più violento dei Nostri, sia a livello chitarristico che nelle splendide vocals di Marco Benevento, mai così interprete oltre che cantante (non dimentichiamo le notevoli doti di attore del frontman).

Brani che ad un ascolto distratto potrebbero sembrare tra loro simili, in realtà brillano di luce propria e ciò che colpisce positivamente è la facilità con cui i The Foreshadowing, pur attenendosi ai canoni del genere, senza inventare nulla di davvero sconvolgente, riescono ad essere così personali. E’ dote rara, al giorno d’oggi.
E’ un ascolto che appaga, quello della terza fatica dei Romani: la maestosa title-track ha un incedere possente che con naturalezza si immerge in un chorus più mansueto, cantilena di speranza per un mondo nuovo forse in divenire e forse migliore; Aftermaths è più classicamente doomeggiante, mentre Ground Zero ci riporta nuovamente verso lidi gothic, quasi new-wave oriented e assieme alla successiva Reverie Is A Tyrant (ancora, canti gregoriani, questa volta posti all’inizio) si ritorna in parte alle atmosfere dell’esordio.
Il track by track potrà sembrare asettico, ma questa volta pare necessario, perché ogni traccia contiene spunti che è doveroso porre in evidenza: proprio come Colonies (pezzo che rimanda alle preghiere fatte musica dei Saviour Machine), sorretta, all’inizio come alla fine, da misurate chitarre acustiche e caratterizzata nella parte centrale da una solenne progressione, dai connotati stilistici quasi cinematografici.

Ci si avvia verso la conclusione e i The Foreshadowing si accomiatano nella solennità di Noli Timere, che spazia tra canti monastici in latino (nuovamente) e la pesantezza di riff ancora di matrice doom, il tutto sempre costruito intorno alla sentita interpretazione di Benevento; chiude l’album Friends Of Pain, lisergico messaggio di una timida speranza nel domani, dove l’unione nel dolore può essere di qualche sollievo.

Il disco della consacrazione per una band che, senza tanti giri di parole, possiamo finalmente mettere sullo stesso livello dei mostri sacri del genere (lasciando in tal caso al lettore la scelta di stabilire quali siano), verso i quali i The Foreshadowing pagano l’unico scotto di una comparsa sulle scene posteriore di diversi lustri. Un lavoro di classe, dove ogni elemento è curato al massimo, senza per questo cadere nel tranello della ridondanza o della prolissità. Certamente un’opera d’arte e non un mero esercizio di stile dove è palese la voglia di creare senza ostentare, senza strafare, dove ogni componente fa la sua parte meravigliosamente in una sinergia di successo. Al di là delle sterili descrizioni, al di là dei poco significativi voti numerici, l’invito di chi scrive è quello di avvicinarsi ad un lavoro come Second World con la dovuta attenzione: si tratta di un album da assaporare con calma come un buon vino d’annata, proprio per apprezzarne al meglio le innumerevoli sfaccettature, che, oltretutto, lo rendono meno immediato delle prime due uscite targate The Foreshadowing.

In sintesi, un disco da avere.

 

Vittorio “Vittorio” Cafiero

 

Tracklist:
1.Havoc
2.Outcast
3.The Forsaken Son
4.Second World
5.Aftermaths
6.Ground Zero
7.Reverie Is a Tyrant
8.Colonies
9.Noli Timere
10.Friends of Pain

Durata: 55 minuti c.a.

Line-up:
Marco Benevento – Vocals
Alessandro Pace – Guitars
Andrea Chiodetti – Guitars
Francesco Giulianelli – Bass
Francesco Sosto – Keyboards, Backing Vocals
Jonah Padella – Drums

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