Recensione: Serpent Psalms
Dopo uno split (“Pools / Cleric”, 2008) e il debut-album (“Gratum Inferno”, 2013), per i Cleric è l’ora del secondogenito: “Serpent Psalms”. Non molto, a dire il vero, per una formazione nata nel 2007 ma, come si sa, non è la quantità a determinare la qualità.
Difatti, dopo un breve incipit strumentale dal sapore lisergico, l’opener-track “Maw of Absolution” deflagra nell’etere con il suo furibondo incedere dettato da un death dalla forma purissima, discendente diretto dello swedish death metal.
Tanto per sgomberare la mente da possibili equivoci, non si tratta del solito trito e ritrito old school death metal. Certo, a un orecchio disattento ciò potrebbe essere plausibile ma si cadrebbe nell’errore di sottovalutare la band statunitense. Che, invece, propone una furia devastatrice come quella di un tornado, le cui volute si possono immaginare come i terrificanti riff delle chitarre di Chris Richardson e Cody Tatum; i quali mulinano con foga e veemenza, non disdegnando, anche, di proporre passaggi dalla pesantezza opprimente (‘Lucifer Triumphant’). Accanto al riffing, si odono spesso e volentieri i lamenti di lugubri assoli, ricami dorati a mò di orlatura di drappi tombali. Ma, si rimarca, è il gran lavoro dei due axe-man che opera la differenza fra i Cleric e tante altre realtà che popolano l’universo del metal estremo. Non c’è pace, non c’è calo di tensione, non ci sono buchi di energia. Anche nelle canzoni più lente, quasi doom, i micidiali accordi dei sunnominati musicisti scarificano la carne, entrando in profondità onde fare fede alla leggenda delle chitarre segaossa (‘Unending Spectral Bloodshed’).
Come detto non mancano i passaggi doom ma, come spesso accade in questi casi, è nelle fast-song che i Cleric danno il meglio di sé, come nella sconquassante “Possessed in Congress”. Cupo, bieco assalto a tutta forza per demolire la resistenza psichica di chi ha l’ardire di ascoltare.
A tal proposito si deve dare merito anche alla sezione ritmica, la quale non fa nulla di eccezionale ma ha il pregio d’innestarsi alla perfezione, parlando di groove, alle numerosissime ramificazioni del rifferama. John Schiller, basso, e Zach Jobin, batteria, aderiscono alla struttura principale della musica del combo di Dallas risultando apparentemente caotici e confusi, il che non è, se ci si concentra sulla loro opera, evidentemente resa in tal modo dalla produzione. Il che è cosa buona e giusta poiché contribuisce fattivamente alla costruzione dello stile proprio del combo medesimo. Sullo stesso cliché Zac Christian, impegnato a condurre le linee vocali con fare piuttosto monotono in una sorta di miscuglio fra growling e tono stentoreo ma che, a lungo andare, serve anch’esso a delineare i contorni tipologici del sound.
Nulla di particolarmente nuovo, certo, ma qualcosa retto da una forte dose di personalità. Uno stile adulto, maturo e completo, che rende merito ai cinque figuri per aver messo in piedi un gruppo che, magari ai palati più fini in materia di metallo oltranzista, può risultare visibile nonché riconoscibile con relativa facilità.
Una facilità che prende anche spunto dal songwriting. Non particolarmente innovativo né tantomeno rivoluzionario, esso tiene assieme con immediatezza e linearità i dettami principali del death metal. Così facendo, le varie tracce scorrono via con piacere, essendo state composte tenendo bene a mente il disegno del marchio di fabbrica dell’act a stelle e strisce, il quale non disdegna neppure di sfondare la barriera dei blast-beats (‘Satan Be Thy Name’).
Niente di nuovo sotto il sole, pardon la tenebra, ma i Cleric, con “Serpent Psalms”, identificano un contingente solido, dalle idee chiare, perfettamente in grado di trasformarle in musica.
Daniele “dani66” D’Adamo